Il giorno 10 aprile, secondo il calendario cristiano, si ricorda la figura del beato Antonio Neyrot da Rivoli, il cui culto fu autorizzato da papa Clemente XIII il 22 febbraio 1767. La storia di questo frate domenicano, nato nel 1425 a Rivoli, cittadina piemontese in cui oggi se ne conservano le spoglie, è la storia di una caduta e di un ravvedimento, una vicenda profondamente umana che ricorda come il cammino verso la santità non sia fatto solo di passi gloriosi, ma anche di fragilità e debolezze. La storia di Antonio si conosce a partire dal momento in cui egli decise di entrare nell’ordine dei frati domenicani, a Firenze: era il 1436 quando prese ufficialmente i voti, il periodo in cui il Beato Angelico stava affrescando il convento della città. Mentore e maestro di Antonio era sant’Antonino, il quale in seguito divenne vescovo della città. Ma il giovane frate novello non era del tutto disposto a seguire la sua guida: se sant’Antonino infatti predicava la pazienza, lo studio laborioso e il lungo lavoro di formazione, Antonio era invece impaziente di portare avanti la sua opera di evangelizzazione e predicazione, per la quale si sentiva pronto. Nel 1448 scampò alla terribile peste che decimò la popolazione fiorentina; a questo punto iniziò a maturare la decisione di voler partire come missionario verso la Sicilia. Nonostante le numerose rimostranze dei suoi superiori, tanto disse e tanto fece (in qualche agiografia si parla anche di raccomandazioni venute dall’alto) che riuscì a partire. Per circa dieci anni svolse dunque la sua opera missionaria in sud Italia, fino a che nel 1458 avvenne l’episodio che avrebbe cambiato il corso della sua vita. Antonio si trovava in viaggio per mare, non è certo se diretto a Napoli o verso le coste africani, quando il vascello su cui si trovava fu catturato dai pirati, e lui stesso portato in catene a Tunisi. All’epoca il paese era uno stato berbero solido e fiorente, di religione musulmana. Il Beato Antonio fu incarcerato, ma riuscì ad ottenere la libertà grazie all’intervento di fra Giovanni, che era il cappellano dei naviganti genovesi che avevano a Tunisi un loro quartiere. In carcere nel frattempo Antonio Neyrot aveva conosciuto fra Costanzo da capri, che ne seguì le vicende e divenne così il suo primo biografo. Una volta libero in tal modo il frate poteva iniziare davvero la sua opera di evangelizzazione, come a lungo desiderato; ma accade l’esatto opposto: abiurò la sua fede, si spogliò delle vesti domenicane e prese moglie. Venne adottato dal re in persona, e iniziò la traduzione del Corano. Era il 1459: intanto in Italia moriva il suo maestro, sant’Antonino, che apparve in sogno al suo antico discepolo, per ammonirlo e convincerlo a tornare sui suoi passi. Iniziò un lungo cammino di penitenza, al termine del quale, la Domenica delle Palme del 1460, proclamò pubblicamente, davanti al re in persona, dopo aver nuovamente indossato il saio, di voler tornare alla vera fede, la fede cristiana. Per queste sue esternazioni, Antonio fu immediatamente imprigionato. Si racconta che in carcere egli distribuisse il cibo che gli spettava agli altri prigionieri, tenendo per sé solo pane e acqua. 



Fu giudicato e condannato a morte: prima di essere lapidato, egli tolse il suo abito religioso e lo consegnò ai suoi carnefici, raccomandando loro di conservarlo con cura perché esso avrebbe garantito loro il perdono. Poi si avviò al martirio, che avvenne tramite lapidazione. Era il giorno 10 Aprile, Giovedì Santo. Il corpo di Antonio fu bruciato, ma non arse: allora fu buttato in una fossa. Ma i mercanti genovesi lo recuperano e lo rimandarono alla città natale del beato, Rivoli. A Tetti Neirotti, frazione di Rivoli, si conserva una pala sulla quale è raffigurato il martirio di beato Antonio Neyrot, da cui la frazione prende anche il suo nome (Neirotti).

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