Nei giorni scorsi i grandi organi di comunicazione hanno riferito con un certo clamore la notizia che il Tribunale di Grosseto ha ordinato al locale Ufficiale dello Stato civile di trascrivere il matrimonio celebrato a New York tra due cittadini italiani dello stesso sesso. Il clamore suscitato dalla notizia non sembra in realtà proporzionato alla sua effettiva rilevanza. Il provvedimento in questione, infatti, non ha certo introdotto nel nostro ordinamento il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ma neppure il matrimonio celebrato a New York tra i due cittadini italiani che si sono rivolti al Tribunale di Grosseto acquista efficacia nell’ordinamento giuridico italiano in virtù di quella decisione. E ciò anche laddove, in assenza di una futura revisione, quel matrimonio dovesse essere effettivamente trascritto.



La legge italiana non esclude che il cittadino italiano possa contrarre matrimonio all’estero con altro cittadino nelle forme previste dalla legge dello Stato prescelto. E ciò anche laddove non esista alcun elemento di collegamento con il luogo della celebrazione. Tale matrimonio produce effetti civili nel nostro ordinamento anche in assenza di trascrizione. La qualificazione dell’atto come “matrimonio” deve infatti intendersi già operata dall’ordinamento dello Stato estero in cui è stato celebrato. La trascrizione del matrimonio del cittadino all’estero non ha cioè efficacia costitutiva del vincolo. Serve semplicemente a fini certificativi e di pubblicità. La celebrazione all’estero non può però costituire un espediente per eludere le norme italiane che indicano le condizioni necessarie per contrarre matrimonio, e cioè gli artt. 84 ss. cod. civ. L’art. 115 cod. civ. dispone infatti che il cittadino italiano rimane comunque soggetto a quelle norme anche quando il matrimonio viene celebrato in un paese straniero secondo le forme ivi stabilite. Anche l’art. 27 della l. 31 maggio 1995, n. 218 ribadisce che «la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio», e dunque dalle norme summenzionate del codice civile, e cioè dagli artt. 84 ss.



Ebbene, nel provvedimento in questione il Tribunale di Grosseto afferma che «nelle norme di cui agli artt. da 84 a 88 del codice civile non è individuabile alcun riferimento al sesso in relazione alle condizioni necessarie per contrarre matrimonio». Di qui quel giudice perviene alla conclusione che il matrimonio tra due persone dello stesso sesso possa essere senz’altro trascritto nei registri dello stato civile. E ciò anche perché, sempre a dire del Tribunale di Grosseto, il matrimonio in questione neppure sarebbe contrario all’ordine pubblico. Non ricorrerebbe perciò il caso di intrascrivibilità dell’atto dello stato civile formato all’estero di cui all’art. 18 del d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396.



L’idea del giudice di Grosseto secondo cui, nel nostro ordinamento, la diversità di sesso tra i coniugi non sarebbe un requisito indispensabile per l’esistenza di un matrimonio è però destituita di qualsiasi fondamento. Lo hanno riconosciuto, di recente, sia la Corte costituzionale sia la Corte di Cassazione. In particolare, in una pronuncia del 2010, la Corte costituzionale, investita della questione del carattere discriminatorio o meno delle norme del codice civile che contemplano esclusivamente il matrimonio tra un uomo e una donna, ha dovuto risolvere anzitutto proprio la questione se la diversità di sesso dei coniugi sia o meno un requisito indispensabile del matrimonio. Solo una risposta affermativa a questo secondo quesito consente infatti di prendere in esame anche l’ulteriore questione del carattere discriminatorio o meno delle norme vigenti sul matrimonio. Ebbene, in quella circostanza la Corte costituzionale, oltre a dichiarare inammissibile la questione di legittimità sollevata, ha chiarito anzitutto che le leggi italiane contemplano unicamente il matrimonio tra un uomo e una donna, e dunque che l’identità di sesso dei nubendi è causa di inesistenza del matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano (cfr. Corte cost., sent. 15 aprile 2010, n. 138). Alle stesse conclusioni è pervenuta ancora più di recente anche la Corte di Cassazione. Nella motivazione della sentenza n. 4184 del 15 marzo 2012 si legge infatti che «l’ordinamento giuridico italiano ha conosciuto finora, e conosce attualmente… un’unica fattispecie integrante il matrimonio come atto: il consenso che, nelle forme stabilite per la celebrazione del matrimonio, due persone di sesso diverso si scambiano». E si dice pure che «la diversità di sesso dei nubendi è… richiesta dalla legge per la stessa identificabilità giuridica dell’atto di matrimonio».

Questi dati giurisprudenziali sono sufficienti a smentire la tesi del Tribunale di Grosseto. A questo punto la stessa questione della contrarietà o meno all’ordine pubblico del matrimonio celebrato a New York tra due cittadini italiani dello stesso sesso appare un fuor d’opera. Per l’ordinamento giuridico italiano, infatti, quel matrimonio è semplicemente inesistente. Né potrebbe divenire esistente perché un giudice ne ha ordinato la trascrizione. E ciò anche laddove quella trascrizione dovesse effettivamente essere eseguita. In realtà, si deve semplicemente riconoscere che, senza un intervento del legislatore, nel diritto italiano non c’è spazio per un matrimonio tra due persone dello stesso sesso.

Al di là della decisione del Tribunale di Grosseto, la vera questione è allora chiarire quale sia il margine di manovra che in questa materia le norme costituzionali lasciano al legislatore ordinario. Tale problema viene presentato per lo più in termini di non discriminazione, e cioè come se il problema dell’accesso al matrimonio da parte di una coppia di persone dello stesso sesso debba essere trattato allo stesso modo, ad esempio, del problema dell’accesso in un qualche luogo pubblico da parte di una persona di colore. Un simile approccio non sembra però corretto.

Beninteso, non è certo in discussione che una stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso non può rappresentare un disvalore per l’ordinamento. Si deve anzi riconoscere che, per l’ordinamento, anche una simile relazione è un valore. Anche in essa la persona persegue infatti un proprio progetto di felicità, cerca in qualche modo una propria realizzazione. Anche una stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso è insomma una “formazione sociale” ove si svolge la personalità dell’individuo ai sensi dell’art. 2 Cost. E ciò, a ben vedere, senza che assuma rilievo il fatto che si tratti di una convivenza fondata su una relazione di tipo sessuale. Ciò che rileva è solo il dato della reciproca assistenza morale e materiale. Le concrete modalità di esercizio della libertà sessuale del singolo debbono rimanere un fatto irrilevante. L’inquadramento nell’ambito delle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost. non è però privo di significato. Ne consegue, ad esempio, che il convivente non può essere considerato un ospite nella casa di proprietà del partner ed essere perciò messo alla porta da un giorno all’altro. E un qualche meccanismo di tutela dell’interesse fondamentale all’abitazione potrebbe forse essergli riconosciuto anche in caso di morte del partner proprietario (o conduttore) della casa in cui la coppia ha convissuto. Certe esigenze non dovrebbero rimanere prive di tutela. Il legislatore farebbe bene a farsene carico.

Ma ciò significa anche che le coppie omosessuali dovrebbero poter accedere al matrimonio? Un simile diritto consegue anch’esso al riconoscimento di un valore nella convivenza stabile di due persone dello stesso sesso? Se così fosse, continuare a escludere dal matrimonio le coppie omosessuali sarebbe effettivamente una grave discriminazione a loro carico. Ma è proprio così?

Per rispondere a certe domande bisogna anzitutto chiarire che cos’è il matrimonio. Com’è noto, nella Costituzione italiana si afferma che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» (art. 29, comma 1). Gli interpreti si sono divisi sul significato dell’espressione “società naturale”. Per alcuni essa allude a una “società di diritto naturale”. Altri vi riconoscono invece un semplice rinvio ai costumi sociali ai fini della definizione di ciò che è famiglia. Certo è che quella formula allude al fatto che la famiglia fondata sul matrimonio non è una società “artificiale”. E cioè che non si tratta di un’aggregazione volontaria di persone che persegue un interesse comune ai suoi componenti. Un’aggregazione di questo tipo è infatti un prodotto “artificiale” della volontà dei suoi componenti: continua ad esistere cioè solo in virtù di questa volontà. La famiglia fondata sul matrimonio è invece qualcosa di diverso: è un’aggregazione che persegue un interesse proprio, che s’impone ai suoi stessi componenti. La comunità familiare è perciò sottratta alla loro disponibilità. È in questo senso che la famiglia fondata sul matrimonio costituisce un’aggregazione “naturale” e non “artificiale”. È cioè un’aggregazione “spontanea”, determinata da “forze” che s’impongono alla stessa volontà dei singoli individui che pure ad essa danno vita.

Un’aggregazione di questo tipo è ciò che i giuristi chiamano un’istituzione. E la famiglia fondata sul matrimonio è appunto un’istituzione. È così che la considera la Costituzione: in un modo che non è per nulla ideologico o astratto, ma è del tutto aderente alla realtà. Perché? Quali sono queste “forze” per cui la famiglia si istituzionalizza? Quali sono questi interessi capaci di imporsi alla stessa volontà degli individui che ne fanno parte, onde la famiglia è sottratta alla loro disponibilità? La risposta a queste domande è addirittura immediata: l’istituzione familiare trova la sua ragion d’essere nella cura di chi in essa è incapace di provvedere ai propri interessi, e cioè, innanzitutto, nella cura dei figli minori. È chiaro allora che la famiglia fondata sul matrimonio si istituzionalizza in presenza di una relazione affettiva potenzialmente aperta alla generazione, e dunque solo in virtù dell’esercizio della sessualità tra un uomo e una donna.

È evidente a questo punto che non si dà luogo a nessuna discriminazione escludendo l’accesso al matrimonio di una coppia di persone dello stesso sesso. Né esistono altre ragioni per istituzionalizzare anche certe relazioni affettive. Perché mai, infatti, una stabile relazione affettiva tra due persone dello stesso sesso dovrebbe essere sottratta alla disponibilità dei suoi protagonisti? È evidente che qui si ha a che fare con un’aggregazione puramente volontaria. Ed è bene, nell’interesse stesso della coppia, che rimanga tale. Anche gli individui coinvolti in questo tipo di relazioni affettive perseguono indubbiamente un comune progetto di felicità che si realizza nel loro stare insieme, nella loro reciproca assistenza morale e materiale. Questo progetto però, che pure, come si è già detto, rappresenta un valore per l’ordinamento, in nessun modo mette capo a un’istituzione, giacché in esso non è riconoscibile un interesse in grado di imporsi alla volontà dei singoli.