La Why Not padovana si è risolta in una bolla di sapone, proprio come l’inchiesta condotta dall’allora magistrato Luigi De Magistris. L’imprenditore veneto Renzo Sartori è finito sotto processo nella sua qualità di presidente di Magazzini Generali, un ente pubblico di Padova, con l’accusa di avere ricevuto fondi regionali per dei corsi da svolgere presso la Dieffe Scarl che secondo l’accusa non sarebbero stati realizzati. Alla fine Sartori è stato assolto con formula piena, in quanto il processo durato quattro anni ha documentato che tutti i corsi sono avvenuti regolarmente e non è stato sottratto un solo centesimo. Stesso discorso per Graziano Debellini, ex presidente della Compagnia delle Opere del Nordest, messo alla berlina mediatica in quanto presidente dell’Istituto Romano Bruni per una somma pari a 7.500 euro che nella realtà non ha mai sottratto. Fabio Pinelli, avvocato difensore di Sartori e Debellini, spiega come il processo ha smontato il teorema dell’accusa.



Qual era l’obiettivo della Procura nel corso del processo di Padova?

I pm volevano dimostrare che si fosse verificata la fattispecie di truffa aggravata per erogazioni pubbliche. Secondo l’accusa Magazzini Generali avrebbe ricevuto denaro regionale per compiere determinate attività, che in realtà non sarebbero state compiute o sarebbero state compiute parzialmente. I fondi pubblici non sarebbero serviti per finanziare le attività per le quali erano stati richiesti.



Che cosa significa l’assoluzione per i due protagonisti, Debellini e Sartori?

L’assoluzione significa in primo luogo che i processi hanno dimostrato come tutte le attività per le quali erano stati richiesti i finanziamenti sono state effettivamente svolte. Il secondo risultato processuale è stato quello di dimostrare che nessuno degli imputati si è messo in tasca un solo centesimo. Tutti i fondi pubblici sono stati utilizzati per compiere le attività istituzionali o per pagare i dipendenti, secondo criteri di assoluta correttezza e mai per fini personali.

Che cosa ne pensa della campagna mediatica orchestrata nel corso del processo?



Quello del processo mediatico è un tema ancora oggi irrisolto, innanzitutto dal punto di vista normativo. Bisogna trovare un punto d’equilibrio diverso tra il legittimo diritto di cronaca e il diritto del cittadino di non essere offeso e diffamato. Occorre evitare che chi finisce nel tritacarne mediatico riceva un danno reputazionale che lo comprometta nella sua attività professionale e nei rapporti con i suoi familiari. E’ evidente che ci possa essere una pubblicizzazione del processo, ma soprattutto nella fase delle indagini, prima di sbattere l’orco in prima pagina bisogna mantenere un’assoluta riservatezza.

Lei ritiene che si possa parlare di una “Why not” padovana?

Si tratta di vicende in parte diverse, anche se certo il processo di Padova ha fatto pensare che ci fosse molto di politico e poco di giudiziario.

 

Per quale motivo?

Perché non sempre l’autorità giudiziaria persegue il reato in sé. In determinati procedimenti è più colpita una posizione di potere, piuttosto che un fatto effettivamente compiuto al di fuori della legalità.

 

Vuole dire che nel processo di Padova la Procura ha tentato di modificare un equilibrio di potere all’interno della Regione Veneto?

Questa è una lettura che io non escludo. Per esempio Graziano Debellini è stato inquisito e maltrattato dal punto di vista mediatico e giudiziario per una dubbia erogazione di un totale di 7.500 euro, in qualità di presidente dell’Istituto Romano Bruni. Qualsiasi altra persona che non fosse stata Graziano Debellini non avrebbe subito quanto ha subito lui per una presunta truffa da 7.500 euro, che tra l’altro non è mai avvenuta, con un’attenzione, una volontà e una pervicacia per giungere a un accertamento di responsabilità penale a tutti i costi.

 

(Pietro Vernizzi)