Molly Bent. Uno di quei nomi che leggi sui giornali stranieri e che, non essendo famosi, potresti anche non considerare, passando oltre. Retinite pigmentosa. Una patologia che non riempie le pagine dei quotidiani e dei notiziari tutti i giorni. E quindi potrebbe risultare sconosciuta ai più. Poi, se decidi di interessarti alla storia, affronti una di quelle “full immersion” esistenziali che ti lasciano il segno dentro. Perché pensare ad una bambina di sei anni che, tra poco, non potrà più vedere nulla di tutto quello che la circonda, ti colpisce come un pugno alla bocca dello stomaco. Lasciandoti senza fiato. Specialmente se sei un genitore e hai figli piccoli. Perché l’idea di una malattia degli occhi che non ha nessuna cura possibile, ti riconduce ai limiti dell’uomo e alla grandezza, spesso terribile, dell’universo e delle cose che ancora non conosciamo, non sappiamo spiegarci, non sappiamo risolvere. Perché l’idea di due genitori che fanno compilare alla loro bambina una lista dei desideri delle cose che vorrebbe vedere prima di diventare completamente cieca, ti fa venire voglia di fare qualsiasi cosa pur di impedire un destino così terribilmente doloroso.
E improvvisamente vorresti fermare il tempo. ” Se ci viene chiesto – scrive Werner Kinnebrock in ‘Dove va il tempo che passa’ – che cosa sono una casa o un albero, siamo in grado di rispondere in maniera piuttosto precisa. Se però ci viene chiesto che cos’é il tempo, ecco che facciamo fatica a trovare una risposta. In fondo, nessuno sa che cosa sia davvero il tempo. Riusciamo soltanto a descriverlo nelle sue manifestazioni, a interpretarlo da un punto di vista fisico, a misurarlo, o a parlarne attraverso una serie di concetti che gli sono strettamente correlati, come il passato, il presente e il futuro. Molte questioni, però, rimangono aperte: ha un inizio e una fine? Lo si può rallentare? Può scorrere a ritroso?”. Leggere queste riflessioni quando ci si imbatte in una vicenda come quella di Molly, ti fa sperare che, da qualche parte del mondo, qualcuno trovi la formula magica per rallentare lo scorrere del tempo. Per allontanare il più possibile un momento che non vorresti mai diventasse reale. “In un razzo che sfreccia nello spazio – ricorda Kinnebrock – il tempo scorre più lentamente che sulla Terra.
Ciò significa che i movimenti fisici avvengono con maggior lentezza. Di conseguenza, gli stessi processi biologici che occorrono nel corpo di un uomo che viaggia all’interno del razzo si verificano più lentamente, cosicché l’uomo in questione non invecchia alla medesima velocità dei suoi simili che si trovano sulla Terra.
Supponiamo che un astronauta inizi un viaggio cosmico all’età di 30 anni. Al momento della partenza saluta la moglie, sua coetanea, il figlio undicenne, e viaggia per venti anni, secondo l’orologio spaziale, con una velocità di 260.000 km/s. Quindi, giunto all’età di 50 anni, torna a casa. Con l’aiuto di formule fisiche si può facilmente calcolare che intanto, sulla Terra, sono trascorsi quarant’anni. Sicché al suo rientro l’astronauta viene accolto dalla moglie ora settantenne e dal figlio che ha ormai 51 anni, ed è dunque di un anno più vecchio del padre cinquantenne”. Lo so. Non è per ora possibile viaggiare ad una velocità prossima a quella della luce per un essere umano. E quindi l’illusione che chi viaggia invecchia più lentamente, influisce soltanto in maniera infinitesimale. Sempre Kinnebrock ci spiega che un rappresentante che ogni giorno viaggi in automobile per una media di otto ore al giorno, al suo quarantesimo compleanno sarà più giovane di un suo coetaneo che vive stando per lo stesso tempo seduto alla scrivania di soltanto 0, 000000008 secondi.
Ecco perché, tra i sogni che si avverano di Molly, mi piacerebbe ci fosse quello di uno scienziato, nascosto da qualche parte, capace di fermare il tempo per lei, di farla viaggiare a 300.000 km/s, fin tanto che un altro geniale ricercatore, di un altro sconosciuto angolo del pianeta, fosse in grado di dare una risposta capace di trasformare la retinite pigmentosa in una di quelle belle storie di successo scientifico da raccontare. “Quando Dio creò l’universo – sosteneva Albert Einstein – l’ultima sua preoccupazione era crearlo in una maniera tale che noi lo comprendessimo”. Mi piace pensare, che passo dopo passo, e tutti insieme, possiamo svelare un mistero alla volta. Anche per Molly.