La storia dei bimbi che all’ospedale Pertini di Roma sono stati impiantati nel grembo della madre sbagliata, è molto più tragica di come sembra a prima vista. Perché la donna che rivuole i suoi bambini, quelli impiantati nell’altra, i propri li ha persi; e invece la donna che sta portando avanti la gravidanza con i figli della prima signora, i bimbi li vuole tenere perchè ormai li sente suoi. È l’ennesima conferma di quanto il sociologo Mauro Magatti, scriveva in un articolo sabato 12 aprile sul Corriere della Sera: “È curioso che mentre coloro che possono sposarsi non si sposano più, chi invece secondo le norme vigenti non lo può fare lo chieda a gran voce. E coloro che possono fare figli non li fanno, mentre chi non può, li vuole assolutamente”.
Non voglio fare un discorso moralistico e dire che chiamiamo il prodotto della fecondazione embrione, bambino o figlio, a seconda che sia un aborto o il frutto di una fecondazione in vitro: non lo voglio fare perché non spiega nulla. Però mi chiedo dove sia il filo rosso che fa venir voglia di vivere quando non si può, e toglie la forze quando è possible. Cosa hanno in comune la coppia che afferma che sposarsi è superfluo perchè quel che conta è l’amore e non sarà certo il matrimonio a mantenerlo, o la coppia omosessuale che dice che amarsi non basta e vuole anche l’istituzione matrimonio? Perché sembriamo quei ragazzi che per capire che la vita è fragile, devono perdere un amico il sabato sera?
Mi sembra di vivere in un tempo in cui l’unico segnalatore valoriale siano l’impossibile e il divieto e ciò che essi recano con sé: il pericolo, la paura, il senso di colpa. È come se fossimo in un incubo in cui chiunque può fare ciò che vuole “tranne una cosa”; e quell’impedimento, quella proibizione, paradossalmente assume un enorme interesse, diventa capace di coagulare forze, non solo psicologiche ed individuali, ma anche sociali, di gruppi, che prima si credevano inesistenti. Perché nella nostra società non esistono agenti capaci di esprimere con la stessa forza anche valori positivi, che diano senso?
Chi declina il positivo c’è, ma non ha la stessa energia di chi lo fa al negativo: i primi sembrano solo capaci di dire ma non di accompagnare. Spiegano cosa fare ma non sanno dare la forza per vivere ciò che affermano. Una volta, in una sera d’inverno, alla periferia di una grande città, vidi un bambino che avrebbe voluto imboccare una via lunga e buia.
Per un motivo misterioso la luce comunale se n’era andata e quel bambino era lì, esitante e fermo, agli inizi. D’un tratto i lampioni si accesero e il corpo del bambino cambiò postura, ma tuttavia ancora non si decideva ad avviarsi. Non fino a quando giunse il padre che dolcemente lo prese sotto braccio e cominciò a camminare insieme a lui. Se luce e padre non fossero mai arrivati, per quanto tempo quel bambino sarebbe rimasto lì con il cammino incompiuto?
Fino a quando una paura, un pericolo, un cane randagio alle sue spalle non avesse cominciato a latrare. Ecco, allora si sarebbe mosso, forse avrebbe anche corso. Ma di una corsa paurosa. Disperata. Alla ricerca della vita, certo. Ma di una vita minacciata e insicura fin dal suo nascere. Una donna che non ha figli va abbracciata e amata e non inserita in una procedura di transfert. Il dolore va abbracciato come l’amore.