E’ lo scandalo, il tormento, la paura di ogni uomo, da sempre e per sempre, la morte. E ritardarla, fuggirla, nasconderla, vincerla, la scommessa di filosofi, maghi e l’inarrivabile sogno della pseudoscienza.

Probabilmente è casuale che proprio nei giorni di Pasqua, triduo di morte atroce e mirabile resurrezione, il Times racconti la sfida di un imprenditore romeno che starebbe lavorando a un software dal nome evocativo, “Eterni.me”. Non si tratta di servizi per pompe funebri, ma di qualcosa di più ambizioso e dirompente, nelle intenzioni. Rendere immortale proprio l’io, in senso perlomeno figurato, perché viva per i suoi cari non solo nel ricordo, ma con la possibilità di interagire, parlare, muoversi, con la sua propria personalità, il suo carattere, i suoi pregi e difetti. Un avatar in 3D, elaborato con foto, e-mail, profili social, racconti dei parenti, in modo da riprodurne al meglio le caratteristiche reali. Un avatar, ovvero un manichino, una bambola, anche se la tecnologia a muoverli è meglio.



Dunque, un altro inganno, un’altra maschera, per fingere di ingannare la morte. Che consolazione potrà dare a chi piange una perdita, come saprà irretirlo e fissarlo per ore davanti a uno schermo, donando l’illusione di una presenza. Come saprà spingere a una nostalgia ancor più struggente, fino alla follia. Come saprà portare ancor più alla solitudine, per un dolore non condiviso tra uomini, ma schermato da un’immagine virtuale.



Ma la proposta, di per sé innocua e perfino lodevole, a parte i fini commerciali, che suonano odiosi trattandosi di speculare sulla morte, fa riflettere sul pensiero che più sviamo e occultiamo, rimandandolo, affidandoci alla scaramanzia o a al fatalismo. Senza mai affrontarlo. La morte non si deve vedere, non si deve sapere. I funerali non sono più un abbraccio di popolo, le tombe abbandonate segnate dalla plastica occasione di frettolose soste, i reparti ospedalieri dove la sua presenza soffia ogni giorno sono il presidio di eroici medici e infermieri e sacerdoti, ma di chi li abita, di chi attende l’attimo estremo, nulla si può e si deve conoscere. Poiché fa paura, la morte semplicemente sparisce, anche dall’educazione dei più giovani, per riproporsi più feroce e inaccettabile quando arriverà l’ora, di soffrire, per qualcuno, o di vederla avvicinare a sé.



Dobbiamo compatire questa nostra debolezza, e questa fragilità accresciuta, man mano che l’uomo crede di farsi più potente e invincibile, capace di dominare la natura, di modellarla a suo volere con la tecnica. Sappiamo bene che quel confine non sarà valicabile, che ogni sforzo sarà vano, e destinato allo scacco, e alla depressione. Qualcuno chiede soltanto di affrettarla, la morte, per non doverla guardare. 

Che pietà dolente, per questa povera umanità inquieta e cieca, davanti al mistero dell’essere. Dio ha risposto, offrendo il dono di un’acqua che placherà ogni sete. Ha introdotto la categoria della vita eterna quando soltanto ci si impegnava per far perdurare i corpi.

Ha parlato di paradiso a chi non vedeva che urne vuote e polverose, a chi sperava di resistere al tempo con la sua gloria, fosse d’armi o di sapienza, d’arte o di bellezza. A chi piangeva sui sepolcri ha donato un sepolcro vuoto, e un uomo ferito, trafitto, ma splendente di luce, che ha parlato, mangiato con i suoi amici, che ha dato un corpo e una voce alla speranza.

Aveva già chiamato dalla morte alla vita: un compagno, una bambina. Al momento della sua morte in croce, si aprono le tombe e i santi rivivono, e si lasciano incontrare per le strade di Gerusalemme. Lo testimonia chi ha scritto con fedeltà tutta la storia, tendiamo a non ricordarlo. Gesù promette la vita eterna, non l’immortalità. Ma non può chiederla, desiderarla per sé e per chi ama chi non sa guardare alla morte, come parte di una vita donata. E’ uno sguardo che taglia le gambe, e schiaccia il cuore.

Ma non staremo meglio fingendo di non vedere. I santi, anche quelli non sugli altari, ci insegnano a vivere con letizia e gratitudine anche quel momento fatale: la loro memoria consola, il sospiro di chi sa dire “sono pronto” addolcisce il dolore più di un avatar.