Dicono che quando uno vuole suicidarsi davvero non lo fa sapere a nessuno. In genere si trovano lettere e messaggi postumi, strazianti per i familiari, che non hanno potuto capire e fermare la disperazione.

Dicono anche che i telefonini fanno male, non solo al fisico, per radiazioni ancora non quantificabili e valutabili nella loro pericolosità, ma soprattutto perché inficiano i rapporti personali, limitano la comunicazione, la confidenza, isolano dal mondo.



Grazie a un messaggio estremo affidato a un telefonino, un uomo di 42 anni che aveva deciso di farla finita è salvo. Non ce la faceva più, la mancanza di lavoro lo umiliava e soffocava. Non riusciva a mantenere la famiglia, chissà che fantasmi di inutilità e vergogna lo agitavano, tanto da volerla abbandonare per sempre, la sua famiglia. Siamo in provincia di Lecce, a Salice Salentino: una terra così bella e ricca, difficile come ogni terra del nostro sud, benché immortalata nei dépliant turistici e nei film, fissata nell’immaginario coi colori dei suoi ulivi, coi suoni delle sue pizziche.



Era Pasquetta, quando l’estate che si avvicina invita a godere dell’aria aperta, del sole già caldo, della compagnia di amici. Pensate alla solitudine di un uomo che proprio mentre si apparecchiano i prati per i pic nic, mentre ardono le braci per le grigliate, e ci si assopisce sulle spiagge, sull’erba, condividendo le ore di festa con gli amici, proprio in quelle ore prende una corda spessa, si esercita con un nodo scorsoio resistente abbastanza da non mollare, cerca il punto più alto dove appenderlo, a casa sua. Nel giorno in cui trionfa la vita: perché si festeggia una Resurrezione che salva la vita di tutti e di ciascuno, non importa quanto dolorosa e sola. Il ritorno alla vita di un Dio fatto carne e sangue si celebra con il grano tenero al posto dei sepolcri viola, con fiori, con uova colorate, con le pastiere profumate che simboleggiano la rinascita. E lui, quell’uomo, che sceglieva quel tempo per morire.



Che angoscia da nascondere la realtà, da dipingere in nero luttuoso ogni cosa, da far scordare i volti sicuramene amati della sposa, della sua bambina.  

Capita, siamo uomini e donne fragili, in tempi fragili. Siamo soli, anche nei paesi dove una volta la solidarietà era visibile e toccabile, nel quotidiano, ed erano aperti i tinelli, i cortili, le parrocchie e le case sociali per accogliere e confortare, per inventarsi qualcosa, insieme. Siamo forse malati di un’accidia contagiosa, di una perdita di senso e coraggio, lo stesso che ha spinto i nostri padri e nonni ad affrontare le guerre, i viaggi in miseria in paesi lontani. La forza della vita, quella ci manca, e non sappiamo neanche più chiederla. Ci limitiamo a chiedere e vederci prescrivere farmaci per tirare avanti, per nascondere e dimenticare. Finché si può, finché un giorno non ci si riconosce più, non ci si riesce più a guardare allo specchio. Però c’è qualcuno che ci guarda, sempre.

E nel caso dell’uomo di Salice è l’occhio attento, amorevole di sua figlia. Dodici anni, grande abbastanza per leggere un sms sul cellulare del padre, e capire, correre a chiamare la mamma, e insieme dai carabinieri, che si precipitano. Appena in tempo, a slegare dal collo dell’uomo ormai cianotico quel cappio, consegnarlo a un duplice abbraccio. Papà, ma noi siamo qui, e ti vogliamo bene. Chissà cos’ha sentito quell’uomo in cuore.

Quante lacrime brucianti, come quelle di Pietro davanti al suo Signore, quanto dolce e amaro sentimento di sé, fissando quegli occhi di bimba grande che lui ha generato, e da cui è stato rigenerato. Sarà forse da curare, quell’uomo, e da accudire, sostenendo la sua debolezza. Ma non potrà più fingere di essere solo, con lo sguardo della sua piccola grande donna, che l’ha fatto risorgere, nella festa più bella.