Mentre procedono i lavori parlamentari per l’approvazione di un disegno di legge volto a ridurre da tre a un anno la durata del periodo di separazione personale dei coniugi necessario prima che si possa proporre domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Ministero della Giustizia ha reso noto che, sempre in tema di separazione e divorzio, il Governo sta elaborando anche un ulteriore «intervento normativo». Tale intervento, come si legge nel comunicato diffuso dal Ministero, «si innesta in una fase stragiudiziale governata da una convenzione di negoziazione assistita conclusa tra gli avvocati delle parti e… finalizzata a sottrarre alla giurisdizione i procedimenti di separazione e di divorzio di natura consensuale». Con una simile iniziativa – si precisa ancora – s’intende «ridurre il carico degli uffici giudiziari, consentendo alle parti di giungere alla separazione o al divorzio consensuale in tempi più rapidi, senza incidere in alcun modo… sull’intervallo di tempo che deve intercorrere tra la separazione e il divorzio e lasciando invariata sul punto la disciplina vigente». I due interventi in fase di elaborazione – quello del Governo e quello del Parlamento – sarebbero dunque destinati a incidere «su profili diametralmente diversi»: «il primo – si legge nel comunicato del Ministero – integra uno strumento stragiudiziale che, ove impiegato, evita ai coniugi di rivolgersi al giudice, mentre l’intervento d’iniziativa parlamentare… ha come obiettivo esclusivamente quello di anticipare i tempi necessari per proporre, sempre in sede giudiziale, la domanda di divorzio».



Al momento non si conoscono ulteriori dettagli sui tempi, le modalità e i contenuti dell’“intervento normativo” di iniziativa governativa. E dunque ogni valutazione rischia di essere approssimativa. Dalla lettura del comunicato ministeriale sembra tuttavia che quello che viene presentato come un intervento di carattere puramente tecnico-procedurale, volto principalmente a favorire una maggiore efficienza del servizio giudiziario, costituisce in realtà una riforma destinata a incidere in profondità sulla disciplina del divorzio, ben più radicale di quella attualmente in discussione in Parlamento. Infatti, il nostro ordinamento non conosce né ha mai conosciuto un divorzio consensuale come quello che ci si propone ora di introdurre. Certo, la legge sul divorzio prevede anche la possibilità di presentare una domanda di divorzio congiunta, da parte cioè di entrambi i coniugi (cfr. art. 4, comma 16, l. 1° dicembre 1970, n. 898, introdotto dalla l. 6 marzo 1987, n. 74). Anche in tal caso, però, il giudice non è affatto esonerato dal verificare l’irreversibilità del definitivo venir meno della comunione spirituale e materiale di vita tra i coniugi derivante da una separazione ininterrotta per tre anni. Anche in questo caso, dunque, ciò che rileva ai fini dello scioglimento del matrimonio non è il consenso dei coniugi, ma la giusta causa prevista dalla legge, la cui ricorrenza in concreto dev’essere pur sempre accertata da un giudice, il quale scioglie il matrimonio con una propria sentenza costitutiva. Insomma, anche nel caso della domanda congiunta il divorzio disciplinato dalla legge italiana rimane comunque riconducibile al modello cd. del divorzio-rimedio per giusta causa obiettiva. E questo modello non è messo minimamente in discussione neppure dal cd. divorzio “breve”.



Ora però, a quanto pare di capire, il Governo sembra intenzionato ad affiancare a questo modello anche un divorzio meramente consensuale, e dunque una possibilità alternativa per pervenire allo scioglimento del matrimonio: una possibilità che, come si legge nel comunicato ministeriale, sarebbe sottratta a qualsiasi forma di controllo giurisdizionale e rimessa unicamente alla volontà dei coniugi, sia pure con la necessaria assistenza dei rispettivi avvocati. C’è da chiedersi tuttavia se un simile “intervento normativo”, ove il suo contenuto sarà effettivamente quello appena ipotizzato, sia rispettoso dei principi costituzionali in materia familiare. Ebbene, in estrema sintesi si può dire che, se, da una parte, l’indissolubilità del matrimonio non è certo incompatibile con la concezione che di esso si ricava dalla lettura dell’art. 29 Cost., dall’altra parte, da quella stessa norma la stabilità emerge come carattere essenziale e indefettibile del rapporto coniugale. Esiste perciò un modello di divorzio che è senz’altro costituzionalmente legittimo – quello del divorzio-rimedio per giusta causa oggettiva – e un modello di divorzio che deve invece ritenersi sicuramente impraticabile perché costituzionalmente illegittimo – quello, appunto, del divorzio consensuale.



Certe affermazioni meritano di essere chiarite. L’art. 29 Cost. dispone che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Tale formula è stata intesa ora come allusiva a una “società di diritto naturale” ora, in senso opposto, come un mero rinvio ai costumi sociali ai fini della definizione di ciò che è famiglia. In ogni caso, come già si è avuto modo di chiarire anche in altre occasioni su questo stesso quotidiano, è certo che quella formula esclude che la famiglia fondata sul matrimonio sia una società puramente “artificiale”. Quella formula chiarisce cioè che la famiglia fondata sul matrimonio non è una semplice aggregazione volontaria di persone, che persegue un interesse comune ai suoi componenti. Un’aggregazione di questo tipo, infatti, è pur sempre un prodotto “artificiale” della volontà dei suoi componenti, giacché può continuare a esistere solo in virtù di questa volontà. La famiglia fondata sul matrimonio è invece qualcosa di diverso: è un’aggregazione che persegue un interesse proprio, che s’impone ai suoi stessi componenti. La comunità familiare è sottratta perciò alla disponibilità dei coniugi: non continua a esistere solo finché i coniugi vogliono stare insieme, ma la sua esistenza s’impone, per così dire, alla loro stessa volontà. In questo senso la famiglia fondata sul matrimonio è allora un’aggregazione “naturale” e non “artificiale”. È cioè un’aggregazione “spontanea”, determinata da una “forza” che s’impone alla stessa volontà degli individui che pure le danno vita. E questa “forza” è evidentemente la necessità di farsi carico di chi nella famiglia è debole e incapace di far fronte ai propri interessi.

Un’aggregazione di questo tipo è ciò che i giuristi chiamano un’istituzione. Ma un’istituzione, se è davvero tale, non può che essere almeno tendenzialmente stabile. In nessun caso cioè il suo scioglimento può dipendere da una semplice decisione dei suoi componenti. La stabilità del matrimonio e la conseguente inammissibilità di un divorzio consensuale discendono dunque logicamente, in una maniera diretta e necessaria, dal fatto che, al massimo livello dell’ordinamento, la famiglia fondata sul matrimonio è riconosciuta come istituzione e non come semplice aggregazione volontaria. Il matrimonio, insomma, non è un contratto, che può sciogliersi semplicemente col mutuo consenso delle parti. Beninteso, il carattere istituzionale del matrimonio non ne implica affatto l’indissolubilità. In effetti, se la stabilità del vincolo coniugale trova infatti fondamento nel perseguimento dei fini propri della famiglia – quei fini in ragione dei quali la famiglia si istituzionalizza –, allora è pure ragionevole che il matrimonio debba potersi sciogliere se questi fini divengono concretamente irrealizzabili. E ciò anche per evitare che la permanenza del vincolo possa determinare inconvenienti peggiori a carico dei coniugi e di eventuali figli. Non sembra tuttavia dubitabile che la stabilità del matrimonio e della famiglia rappresenti un portato necessario del riconoscimento del loro carattere istituzionale.

Ciò posto è evidente che, mentre non può apparire problematico sotto il profilo costituzionale un intervento di riforma come quello sul cd. divorzio “breve”, e cioè un intervento che, per quanto discutibile, non mette però in discussione la configurazione del divorzio come rimedio eccezionale per la sopravvenuta impossibilità di mantenere o ricostituire la comunione spirituale e materiale di vita tra i coniugi, l’introduzione di un divorzio meramente consensuale appare invece sicuramente incompatibile con i principi costituzionali in materia familiare. Come si è provato a chiarire, infatti, il carattere istituzionale della famiglia fondata sul matrimonio implica che il diritto di ottenerne lo scioglimento venga ad esistenza solo in presenza di una giusta causa oggettiva e che si tratti comunque di un diritto esercitabile sotto il controllo di un’autorità giudiziaria chiamata a verificare la reale sussistenza della causa di scioglimento e quindi a disporlo con propria sentenza costitutiva.