Occorrerebbe riandare alla situazione della Chiesa negli anni Cinquanta per capire la portata storica dei due Papi che oggi vengono canonizzati. Una Chiesa che rischiava di rimanere chiusa in se stessa, con una grande difficoltà a stabilire un rapporto adeguato col pensiero moderno, era bisognosa di una svolta epocale per tornare ad annunciare Cristo in un modo convincente e attraente agli uomini del nostro tempo.
«La longanimità misericordiosa di Dio per la salvezza dell’uomo», con queste parole don Giussani sintetizzò la testimonianza del Papa buono, che nella Pacem in Terris aveva intuito che la «frattura» nei battezzati tra fede e vita era «il risultato di un difetto di solida formazione cristiana. È perciò indispensabile che l’educazione sia integrale e ininterrotta» (n. 80).
Chi avrebbe potuto immaginare solo poco tempo prima un evento come quello del Concilio Vaticano II? Occorreva una personalità semplice come quella di Giovanni XXIII per assumersi tutta la responsabilità di convocare un concilio ecumenico. E anche se sarà Paolo VI a guidare i lavori dell’assise, il merito di averlo convocato e di averne impostato le prime mosse sarà per sempre di Papa Roncalli. Come osservò nel lontano 1968 l’allora Joseph Ratzinger, egli «fa parte dei pochi che sono veramente grandi, i quali, superando tutti gli schemi, sperimentano di persona in modo creativamente nuovo ciò che è all’origine, la verità stessa, e riescono a porlo nuovamente in rilievo». Sembra di leggere uno dei tanti richiami all’essenziale di papa Francesco.
Se a Giovanni XXIII spetta l’onore di avere indetto il Concilio, si deve senza dubbio all’altro Papa che viene canonizzato, Giovanni Paolo II, l’avere raccolto il mandato conciliare e l’ansia per la sua realizzazione che era stata di Paolo VI. Dopo anni di scombussolamento del cosiddetto post-Concilio (Papa Montini ne parlò come di una «giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza»), in cui si vedeva con chiarezza quello che non serviva più, ma si era ancora alla ricerca di quello che veramente poteva rispondere alle sfide del presente, l’arrivo di Giovanni Paolo II ha rappresentato una ventata d’aria fresca per una Chiesa in difficoltà.
Forse solo adesso cominciamo a renderci conto della natura dell’impatto che la sua elezione ebbe sulla vita della Chiesa. Egli riuscì a invertire «con la forza di gigante – forza che gli veniva da Dio – una tendenza che poteva sembrare irreversibile», aiutando «i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo» (Benedetto XVI, Omelia alla beatificazione di Giovanni Paolo II, 1° maggio 2011). Papa Wojtyla ha incarnato, come disse di lui don Giussani, «la chiara certezza di quel che significa il contenuto del messaggio cristiano anche per la storia di questo mondo. La fede cioè nel Dio fatto uomo, con il conseguente entusiasmo per questo Uomo, in cui è possibile riporre tutta la speranza dei singoli uomini e del mondo intero».
Chi non ricorda l’impatto dell’enciclica programmatica Redemptor Hominis? «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. […] L’uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo – non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere – deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve “appropriarsi” ed assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso» (n.10).
Con la sua testimonianza personale di un cristianesimo vissuto con una consapevolezza e audacia uniche, Giovanni Paolo II ha riproposto in modo geniale il fondamento teologico della fede cattolica nelle encicliche trinitarie: Cristo, centro del cosmo e della storia (Redemptor Hominis); Dio Padre, ricco in misericordia (Dives in Misericordia); lo Spirito Santo, Signore e datore di vita (Dominum et Vivificantem). E allo stesso tempo, Papa Wojtyla ha mostrato anche tutte le implicazioni antropologiche e culturali della fede cristiana per la vita dell’uomo: la ragione esaltata e sanata dalla fede (Fides et Ratio); la dipendenza della morale dalla fede (Veritatis Splendor); la portata della fede per l’economia e il lavoro (Encicliche sociali); la natura missionaria della fede (Redemptoris Missio); la capacità della fede di illuminare il mistero del dolore (Salvifici Doloris), della vita umana (Evangelium Vitae), della famiglia (Familiaris Consortio). Così l’uomo può capire la promessa che la fede cristiana porta con sé per rispondere all’anelito di compimento in ogni aspetto del vivere.
Nel 2005 l’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio rese omaggio a Giovanni Paolo II parlandone come di «un uomo che mette in gioco tutto se stesso, e con tutto se stesso e con l’intera sua vita, con la sua trasparenza, avalla ciò che predica». Un testimone che ha reso visibile l’essenziale, cioè Gesù Cristo, l’Unico che salva l’umano e riempie di letizia il «cuore inquieto» di ciascuno.