Negli anni in cui il modernismo iniziava ad avvelenare le menti anche dei migliori laici e religiosi, Guillaume Pouget, un prete lazzarista che ha avuto una profonda influenza educativa su un gran numero di studenti e docenti universitari francesi agli inizi del secolo scorso, contribuendo a formare un’intera generazione di intellettuali cattolici (tra di essi Jean Guitton, Emmanuel Mounier e Gabriel Marcel), amava ripetere ai giovani che «fare i santi è lo scopo della Chiesa». Gli fa eco il grande teologo von Balthasar: «La storia della Chiesa è innanzitutto quella dei santi: dei santi noti e di quelli ignoti».
Al di là dello spettacolo di umanità e di fede che la canonizzazione di due tra i papi del XX secolo più amati dal popolo cristiano offre ai credenti e a tutto il mondo, resta il valore del gesto solenne, antico ed attuale con il quale la Chiesa eleva alla gloria degli altari alcuni dei suoi figli. L’incontro con Cristo cambia la vita dell’uomo, gli consente di essere veramente ciò per cui è stato originalmente plasmato da Dio: una creatura beata, felice perché amata dall’Eterno, amica dell’Essere e della vita che da Lui sgorga e a Lui ritorna. La santità non consiste nell’eccezionalità di una vita straordinaria, ma nell’ordinarietà (secondo l’ordo, cioè la “regola”, “norma”) di una vita eccezionale, cioè accolta (dal latino excipere, “ricevere”, “ottenere”) da Dio come un dono, una grazia. «Il santo – scrive don Luigi Giussani – non è né un mestiere di pochi né un pezzo da museo. La santità va vista in ogni tempo come la stoffa della vita cristiana. Pur dentro la parzialità di certe immagini rimane la traccia di una idea fondamentalmente esatta: il santo non è un superuomo, il santo è un uomo vero. Il santo è un vero uomo perché aderisce a Dio e quindi all’ideale per cui è stato costruito il suo cuore, e di cui è costituito il suo destino». (Alla ricerca del volto umano, Milano 1995, p. 163) In questo senso “ordinario”, normativo per la vita cristiana, molteplici sono le testimonianze degli stessi santi: «La santità non consiste nel fare cose straordinarie, ma nel fare straordinariamente bene le cose ordinarie». (Beato Luigi Monza). Una straordinarietà amorosa è l’unica possibilità offerta all’uomo per appartenere al Mistero d’amore da cui è fatto nuovo ogni giorno: «Tutta la santità e la perfezione di un’anima consiste nell’amare Gesù Cristo, nostro Dio». (Sant’Alfonso Maria de Liguori).
La celebrazione liturgica della memoria dei santi – ora anche di papa Roncalli e papa Wojtyla – non è l’esaltazione in cielo di chi ha vissuto senza tenere i piedi per terra, ma la testimonianza (di cui la Chiesa e il mondo ha bisogno oggi più che in altri tempi) che si può camminare concretamente saldi nella finitezza della vita solo se si aderisce all’ideale di cui è impastato e per cui è fatto il nostro cuore: il cielo, cioè l’infinito.
E non è neppure il compiacimento per le tribolazioni della vita terrena dei santi, nella consolazione della loro beatitudine nella vita celeste. La santità in vita è il “centuplo quaggiù”, caparra dell’eterna felicità (cf. Mc 10, 29-30). Ce lo ricorda icasticamente Léon Bloy: «Al mondo c’è una sola tristezza: quella di non essere santi. E quindi una sola felicità: quella di essere santi».
Due critiche che si sono levate contro la canonizzazione di Giovanni Paolo II, ad intra et ad extra Ecclesiae, ci aiutano a comprende più radicalmente l’originalità della santità cristiana. La prima tende a negare il valore “esemplare” della figura di un papa santo per il popolo cristiano: che cosa ha da dire ad un padre, ad una madre o ad un giovane, ad un semplice religioso consacrato a Dio o ai laici che seguono i consigli evangelici, la vita di un pontefice, così singolare e legata ad un ministero unico nella Chiesa? Se i santi sono “modelli di vita cristiana” offerti alla meditazione e all’imitazione di tutti, che senso ha un santo la cui vita è stata così “diversa” da noi? La domanda tradisce un’incomprensione radicale della “esemplarità” della vita santa. Essa non consiste nella replicazione di uno stile, ma nella “ri-petizione” (etimologicamente, una “nuova domanda”) di un’esperienza, possibile a tutti: vivere ogni giorno offrendo a Dio tutto ciò che siamo e abbiamo, qualunque sia il nostro stato laicale o religioso, in ogni circostanza facile o difficile della vita, dentro ad un compito o ad un altro che ci stato affidato, nella certezza di una Presenza amante e amata, e della sua pace. «La santità – scrive S. Teresa d’Avila – non consiste nel fare cose ogni giorno più difficili, ma nel farle ogni volta con più amore». Nessuno e nulla potrà impedirci di immedesimarci e lasciarci plasmare da questa esperienza quotidiana che ha fatto di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II due santi. Così, «la santità, la vera aristocrazia del cristiano, può essere accessibile a tutti; può essere, per così dire, democratica». (Paolo VI)
La seconda obiezione, riproposta alcuni giorni fa da Maureen Dowd sul New York Times, prende le mosse dalle ricorrenti critiche – circolanti in taluni ambienti statunitensi – secondo le quali Giovanni Paolo II avrebbe coperto molti abusi sessuali di chierici sui minori, protetto l’allora arcivescovo di Boston, il Cardinale Bernard Francis Law, e ignorato le accuse di pedofilia ed altre nefandezze rivolte al fondatore dei Legionari di Cristo, Padre Marcial Maciel Degollado. Senza entrare nel (de)merito di questa volgare quanto infondata attribuzione a papa Wojtyła di responsabilità che sono a carico di altri soggetti e istituzioni – negli anni passati, chi di competenza ha già fornito alla stampa i dovuti chiarimenti e respinto ogni addebito al Papa – l’obiezione offre l’opportunità di mettere in luce una dimensione costitutiva della santità: essa non si identifica con la perfezione morale, l’innocenza assoluta o la scevrità da errori, nell’accezione che queste espressioni assumono in un contesto etico autoreferenziale.
Se così fosse, il primo papa della storia della Chiesa, l’apostolo Pietro, non avrebbe potuto essere riconosciuto e venerato come santo fin dai primi secoli, almeno considerato il suo rinnegamento descritto nei vangeli della Passione (cf. Lc 22,54-62; Gv 18,15-27). In Pietro, la santità si identifica nella triplice risposta di amore a Gesù (cf. Gv 21,15-17), che redime ogni sua debolezza e lo fa autentico “imitatore di Cristo”, e non nella perfetta coerenza con sé stesso, secondo una concezione di “eroicità etica” che nulla ha a che vedere con quella di santità cristiana. «Nella fisionomia del santo l’affezione a Cristo costituisce il tratto più rispettabile e stupefacente, e il senso della sua Presenza l’aspetto più determinante. In un certo senso ciò che brama il santo non è la santità come perfezione; è la santità come incontro, appoggio, adesione, immedesimazione con Gesù Cristo». (L. Giussani, op. cit., p. 171). Solo all’interno di questa affezione che si immedesima e immedesimazione che si affeziona sempre di più comprendiamo adeguatamente il termine tradizionale che indica la santità – “perfetta imitazione di Cristo” – senza che esso assuma una deriva moralistica. Nel leggere le vite dei santi (una lettura che fa bene a tutti, credenti e non), possiamo così arrivare perfino a sorridere delle loro debolezze o stravaganze, senza smettere di riconoscere la grandezza della loro statura cristiana, e per ciò stesso umana.