Andy Warhol affermò: «In the future everyone will be world-famous for 15 minutes. Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per 15 minuti». È una profezia quanto mai attuale. I new media, infatti, non solo accelerano la diffusione della notorietà di personaggi già famosi, ma anche creano la celebrità di persone completamente sconosciute che, nel giro di poche ore o di pochi giorni, possono ottenere fama, successo e cospicui introiti. In queste settimane una ragazza finlandese, Sara Maria Forsberg è divenuta una nuova star di Internet con il video di youtube «What languages sound like to a foreigner» che ha ottenuto più di nove milioni di visualizzazioni in tutto il mondo. Per lei, pur così giovane, si aprirà probabilmente la possibilità di una carriera. I giovani sono bombardati dall’idea che si possa diventare famosi, vogliono essere cliccati, ottenere quanti più «Mi piace», segno di esistenza in vita, di riconoscimento. La facilità del servizio, l’eliminazione della fatica, del dispendio inutile di tempo, dell’immediatezza del consumo e della rapidità dell’ottenimento della fama senza un giusto percorso graduato sono elementi che contraddistinguono un’epoca incentrata sul «piacere» più che sulla «roba».



In sostanza questo sviluppo è direttamente scaturente dall’esasperazione del piacere, anche virtuale, cioè non reale, e del tempo come unica dimensione fondamentale. La dimensione del luogo dove accade un fatto, dove incontri la persona, dove parli e ti confronti è considerata secondaria o, meglio, il luogo può anche essere un non luogo, virtuale, non reale, fittizio e ingannevole, mentre si deve avere l’impressione di poter gestire il tempo senza perdere neanche un istante. Sempre più, oggi, la comunicazione è caratterizzata da urgenza di immediatezza, come se non fosse tanto importante il messaggio veicolato, la profondità, la possibilità di un’apertura nel rapporto, quanto la dimostrazione di essere in una comunità, di appartenere appunto ad una community. La comunicazione del messaggio, qualunque esso sia, è prova stessa della esistenza del mittente e la risposta altrui ne diventa garanzia.



È come, però, se questa comunicazione avesse bisogno di una continua riasserzione, ovvero è come se al messaggio inviato dovesse corrispondere l’immediatezza della risposta in un circuito vizioso che esclude la consapevolezza che i risultati sono frutto della fatica e del tempo, della costanza e del sacrificio (termine che significa «rendo sacro, intoccabile, inviolabile»), non dell’immediatezza e del «mordi e fuggi». Quello che manca oggi è proprio la dimensione del sacrificio e della responsabilità. Quello che manca oggi è la consapevolezza che nel tempo si costruiscono i rapporti e le relazioni, così come nel tempo si costruiscono le grandi cattedrali. All’uso e al dono del tempo all’altro si è sostituita l’immediatezza e la repentinità della relazione a cui non si possono offrire il tempo e la propria persona. L’uomo vuole tutto il tempo per sé. Il paradosso è che, così, lo spreca e, spesso, non sa come utilizzarlo in maniera proficua.



Cosa si propone, spesso, all’audience per ottenere fama rapidamente? Nel video cui si è accennato sopra senz’altro la ragazza è bella, la performance è particolare, ma ci chiediamo noi che senso possa avere se non quello di stupire per ottenere notorietà. Pensate, forse, che la ragazza sappia davvero parlare diciassette lingue? Ma a nessuno importa davvero chiedersi questo. A nessuno interessa che la prova sia davvero attestazione reale di capacità. Rimaniamo alla valutazione superficiale di piacevolezza che ingenera il video. Raramente si propongono allo spettatore la bellezza, la bontà, la verità, più spesso la provocazione, la volgarità, immagini ammiccanti, effetti speciali, scene che colpiscono all’istante, senza che occorra far fatica, comprendere capire. È la fruizione del disimpegno. Nella maggior parte dei casi circolano sulla televisione o sui new media abnorme uso della sessualità, sensualità e provocazione oppure morte, oscenità e bruttezza sostituiscono desiderio di vita, sacralità, bellezza e tenerezza amorosa. Così sembra oggi essersi avverata la profezia delle streghe del Macbeth che all’inizio esclamano «Il bello è brutto e il brutto è bello». Si è affermata, cioè, la tirannia del brutto anche nei campi artistici che per eccellenza consacravano il trionfo della bellezza.

Domina il trash, ovvero la spazzatura. Vanificati la tradizione e il retaggio valoriale e tecnico della tradizione stessa, sottovalutato tutto ciò che è del passato (purché non sia di pochi decenni prima, perché in tal caso andrebbe di moda), si può tranquillamente proporre agli occhi e agli orecchi di tutti la spazzatura. La vera e propria spazzatura è diventata arte: non un sogno, ma un incubo, quello della distruzione dell’arte, si sta traducendo in realtà. Basterà addurre qualche esempio in campo artistico. Il New hoover convertibles di Jeff Koons, cioè un aspirapolvere posto in una teca di museo, ha inaugurato nel 1984 il Neo-Geo o commodity sculpture. Sarah Lucas nel 1994 nell’opera Au naturel fa uso di frutta per imitare il rapporto sessuale su un letto, mentre Strange fruit di Zoe Leonard nel 1992 diventa la più evidente espressione del Kitsch: bucce di arance cucite insieme a ricomporre un nuovo frutto.

Chiediamoci col Manzoni de Il 5 maggio: «Fu vera gloria»? Manzoni non avrebbe dubbi al riguardo: se di fronte all’eternità è silenzio e tenebra la gloria che fu di Napoleone (come leggiamo alla fine della poesia), figuriamoci la notorietà di chi ostenta performance senza avere virtù particolari o talenti. Dante scrive: «Non è il mondan romore altro ch’un fiato/ di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,/ e muta nome perché muta lato» (Purgatorio XI). E nel canto XVII del Paradiso, di fronte al trisavolo Cacciaguida, Dante esprime la paura di perdere l’ospitalità presso i signorotti dell’epoca nel caso in cui racconti tutto quello che ha visto nel viaggio nell’Oltremondo. Cacciaguida, però, lo riconferma nel suo compito di «allontanare gli uomini dalla condizione di miseria/peccato/infelicità e accompagnarli alla situazione di felicità/beatitudine» (come il poeta scrive nella Epistola a Cangrande della Scala inviatagli assieme al Paradiso).  

Dante ha pensato a sé e a coloro che avrebbero chiamato il suo tempo antico, cioè i posteri. Dante non ha avuto paura dell’esilio, della solitudine, ha avuto solo timore di non raccontare la verità e di perdere la gloria presso coloro che avrebbero chiamato antico il suo tempo, cioè noi. Noi siamo certi che la verità si affermerà («fin che l’ha vinto il ver con più persone» Purgatorio XXVI). Il sigillo della verità è, infatti, la durata nel tempo, perché solo ciò che è vero persiste.

Chiediamoci, quindi: che cos’è la vera bellezza? Come possiamo definirla? Io penso che la questione non sia quella di definire la bellezza, cioè il problema non è quello di chiudere la bellezza all’interno di confini, ma quello di osservare quello che la bellezza suscita in noi. Quando noi vediamo qualcosa che è davvero bello, la prima reazione è uno stupore, una meraviglia, che ci fa rimanere estasiati, in contemplazione. Pensiamo a una musica bella. Pensiamo alla sinfonia 40 di Mozart o alla Cappella Sistina di Michelangelo. Nel momento in cui noi cerchiamo di definire la bellezza, noi già la stiamo deturpando, la stiamo in un certo senso corrompendo, perché siamo presi come da un desiderio di possesso della stessa. Invece, la bellezza va ammirata. Bisogna guardare dove ci porti, come ci muova. È anche vero che quando io mi interrogo sulla bellezza di certe opere, mi rendo conto che c’è sempre un legame molto profondo tra l’arte e la realtà. Nel primo atto dell’Amleto il protagonista riferisce all’amico Orazio: «Ci sono più cose in cielo e in terra che nella tua filosofia, Orazio». La realtà è sempre più ricca di ogni immaginazione e, quindi, l’arte potrà e dovrà sempre prendere spunto dallo stupore per la realtà. La filosofia, la scienza, l’arte hanno la stessa scaturigine. Manzoni nell’opera De inventione sostiene che l’artista non inventa mai nulla. «Inventare», infatti, deriva da «invenire» che vuol dire «trovare», «scoprire».

Quindi l’artista è come se trovasse nel creato le norme e le impronte del creatore. Che significa? La bellezza che c’è nel creato è la sorgente dell’opera d’arte, è la sorgente di ogni atto, di ogni iniziativa artistica. C’è, poi, un legame molto profondo anche tra la bellezza e la bontà. La bellezza non è slegata dalla bontà. Quando un bambino dice «mamma sei brutta» o «papà sei brutto» intende dire che si sono comportati male. Nel bambino questa coincidenza tra bellezza e bontà è chiarissima. Non siamo noi adulti ad avere insinuato in lui la nozione di una identità tra bontà e bellezza. Per un bambino la mamma è bella sempre, perché è buona, è il suo punto di riferimento. Quindi la mamma è bella e buona. Ma nell’epoca moderna, in maniera drammatica, è avvenuta una separazione tra bellezza e bontà. 

Ecco, l’identità tra buono, vero e bello è sempre esistita nell’arte. Questa identità esiste nell’arte classica, così come nell’estetica cristiana. Che cosa è accaduto nella contemporaneità? Possiamo senz’altro sottolineare alcune tendenze di fondo. La prima è sintetizzabile nella perdita del valore del simbolico, cioè della capacità di mettere insieme, unire il particolare con l’universale, con il suo significato. Nel Medioevo c’erano meno pezzi del puzzle del reale, ma l’uomo aveva ben presente l’immagine che doveva ricostruire. Oggi i pezzi del puzzle sono aumentati, ma è scomparsa per molti l’immagine di riferimento, il significato del tutto, il senso ultimo del reale. Se indaghiamo in maniera più analitica lo scenario estetico di oggi, si constata la separazione tra arte e bellezza, tra arte e realtà, tra arte e mistero, tra arte e uomo, tra arte e forma. Quell’arte che ha sempre avuto una forma, sinonimo stesso di bellezza, è divenuta spesso informale, senza forma. La coincidenza tra bello, buono e vero si è, nel tempo, disgregata. Un tempo la bellezza era anche sinonimo di bontà e verità. Oggi l’arte non vuole più essere bella, né buona, né vera, perché non esistono più, dicono in tanti, né bellezza, né bontà, né verità.

La seconda tendenza è conseguenza della prima. La frattura tra forma e contenuto ha condotto nel Novecento, secolo delle ideologie imperanti, al dominio del cerebralismo, al primato dell’idea sull’oggetto, sulla bellezza, sulla realtà. L’idea stessa, slegata da una forma, può diventare opera d’arte. Infine, e questa è la terza tendenza, tra Ottocento e Novecento il fatto artistico è stato inserito in un quadro economico. I quadri sono diventati investimenti, il criterio di valutazione si è legato alle misure dell’opera e al coefficiente di moltiplicazione proporzionale con il curriculum dell’artista. I movimenti artistici sono diventati mode soggette al tempo e all’arbitrio dei critici d’arte.