Padre Basilio indossa gli auricolari. Non li sopporta. Gli fanno sentire il rumore del mondo mentre lui attende il silenzio eterno. Dalla sua stanza all’ultimo piano del palazzo della Custodia di Terra Santa può contemplare le pietre e i bagliori di Gerusalemme. La visione delle cupole dorate e dei minareti è il premio per i vecchi frati, consumati dal sole e dalla fatica. Padre Basilio ha 101 anni, il capo calvo e il saio sempre indosso. Non si muove più da quando il femore si è sgretolato, ma gli occhi sono ancora buoni per leggere. Passa il tempo pregando o godendo della compagnia degli amici che lo vanno a salutare. Con innocente civetteria dice di non ricordare molto del secolo che ha attraversato, ma in realtà ha conosciuto il bene e il male del cuore degli uomini. Si può permettere di sorridere degli affanni altrui, ha sofferto, servito e amato tanto. Ora aspetta la morte, senza ansie e senza paura. 



È nato armeno, nel gennaio del 1913, e la vita l’ha fatto diventare palestinese. Ultimo figlio di Wartiwar Talatiniane e di Feride Cialoglian, ha visto la luce a Marasc, l’antica Cilicia. La madre gli mise nome Kerop, “cherubino”, sperando, forse, per lui un destino sereno. La prima guerra mondiale e l’esilio, invece, gli portarono via l’infanzia. La violenza dei “giovani turchi” e il tifo, i genitori. Rimasto solo, con Naum e Stipan, due dei suoi nove fratelli, venne accolto nell’Orfanotrofio americano, senza per questo trovarsi in salvo. 



Da armeno non gli venne risparmiata la persecuzione toccata al suo popolo. Anche lui, come molti altri, costretto alla fuga dalla furia turca, attraverso la Siria e il Libano. Prima Aleppo, poi Homs e in seguito Antelias, fino a quando uno zio francescano non inoltrò le pratiche necessarie per farlo palestinese. Si ritrovò a Betlemme, dopo un viaggio da clandestino in camion, ad imparare l’arabo e l’italiano insieme al mestiere da calzolaio. Ricorda che si addormentava spesso, preso da una incontrastabile sonnolenza, qualche volta suonava canzoni tristi con l’armonium, e una ghiandaia, a cui i suoi compagni con crudeltà infantile avevano tagliato le penne delle ali, si posava su un lato della tastiera per ascoltarlo.



La vocazione arrivò all’improvviso dopo un viaggio a Gerusalemme. Lo misero a studiare e l’8 dicembre del 1934 divenne figlio di Francesco, vestendo quel saio che non avrebbe più lasciato. Quattro anni dopo l’ordinazione sacerdotale a Roma, dove i superiori lo avevano spedito a prendere la licenza in Diritto canonico. Nella città eterna comprò un dizionario di italiano e una buona spazzola per vestiti, che usa ancora adesso. 

La seconda guerra mondiale lo beccò in Italia, tra le Marche e il Lazio, nuovamente esule. Per ritornare in Palestina dovette aspettare l’arrivo degli alleati, partì a bordo di una nave, salpata da Taranto,  piena di ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento. La notte dormiva accanto ad un rabbino che si era preso il compito di proteggerlo, mentre di giorno distribuiva cioccolato e puliva il vomito di corpi scarnificati dalla prigionia. 

Pensava di aver lasciato la guerra alle spalle, invece le andava incontro. Ma non ha mai più abbandonato la sua terra di adozione, per quanto incomprensibile e violenta potesse sembrargli. Se Dio vorrà sarà uno dei pochi ad aver visto quattro pontefici pellegrini sui luoghi santi. Papa Francesco lo seguirà in televisione o magari lo incontrerà nel Cenacolo, con gli altri frati, se qualche confratello generoso spingerà la sua carrozzina. 

Con un secolo incollato ai muscoli e stampato negli occhi può permettersi di snobbare la storia. Eppure ricorda ancora l’arrivo di Paolo VI a Gerusalemme: era andato alla porta di Damasco, affollata di cristiani, musulmani e guardie reali. Uomini e donne in festa, che cantavano l’Osanna come nella domenica delle palme: arrampicati sulle mura della città vecchia, traboccanti dai balconi in ferro, addossati ai militari giordani. Una folla immensa che spingeva e piangeva di commozione perché Pietro tornava a casa dopo quasi duemila anni. 

Padre Basilio non è un uomo di grandi sentimenti, troppa vita sulle spalle e troppo dolore. Ma una cosa la ricorda bene: il canto in libanese di una donna che ridusse al silenzio quella multiforme massa umana. Una melodia struggente che ancora porta nel cuore.

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