Oggi, primo maggio, festa dei lavoratori, avevo da pulire casa, e tanto da stirare. E poiché vivo in un tempo in cui si tengono aperti i negozi di domenica e la festa, o non c’è mai, o è finta festa tutti i giorni, non accetto che una morale laica si indigni perché scelgo di lavorare. So che il mio lavoro non sarà retribuito e non sarà neppure riconosciuto, e non è neppure gratificante. Non si valuterà mai abbastanza non il mio, ma il lavoro silenzioso, operoso, quotidiano di tante donne e madri, che ha un solo motore e un solo obiettivo: il bene di chi ti sta intorno. 



In sottofondo, ho acceso la tv, sul concertone di piazza San Giovanni. 

Roma riempie un’altra volta le sue piazze questa settimana, dopo l’accoglienza di una folla ben più grande, accorsa per la canonizzazione di due papi. Una folla multietnica, multiculturale, per usare termini che vanno di moda, festosa, pacifica, allegra. Anche San Giovanni è piena di gente colorata e colorita. Guardo tutti quei ragazzi con le braccia alzate, cantare, ballare, gridare. Penso alle loro storie, ai loro sogni, all’entusiasmo e al rispetto con cui ascoltano i racconti che giornalisti e scrittori, alternati ai cantanti, propongono dal palco. 



Si parla di disoccupazione, che è la loro paura più grande. Di democrazia e partecipazione, e non sanno bene a che cosa. Di diritti, di lotte, antiche  e nuove, e mi chiedo se le conoscono, o si fidano di come vengono raccontate. Ci sono storie di padri e nonni, storie di operai sfruttati, di senza tetto, di migranti sopravvissuti e in cerca di sopravvivenza. C’è il ricordo dei morti sul lavoro, dei morti in manifestazioni di piazza, in scontri con le forze dell’ordine. C’è la mafia e lo slow food, i sindacati uniti e l’antifascismo. 

Tutto insieme, senza distinzioni, senza critica, senza giudizio che non sia l’indignazione. Penso con tenerezza a quei ragazzi, uno ad uno, convinti di assistere a qualcosa di grande, di essere protagonisti. E penso che si meritano di più, di meglio, che slogan e incitazioni alla rabbia. Si meritano testimoni, che li invitino a muoversi, cambiare, uscire dall’individualismo in cui si rifugiano, dalla disillusione, che diano speranza e opportunità. Non meritano le solite e scontate battute del Vergassola di turno, condite di piccanti allusioni sessuali; le tirate moraliste dell’intellettuale di grido, della vincitrice dei talent, della band un po’ appannata, del magistrato in pensione in astinenza da telecamere, dei leader della trimurti che non sanno più come acquistare la loro fiducia. 



Se penso ai lavoratori, penso a mio nonno falegname, che si è opposto al fascismo con più eroismo del presidente innalzato sugli altari della patria, perché non ha ucciso nessuno. Penso a mia nonna, partita bambina per l’America e tornata adolescente, per stare accanto alla sua famiglia durante la guerra. Lei sì che potrebbe parlare di  emigrazione, di doveroso equilibrio tra accoglienza e rispetto, lei che lavava i piatti a sette anni, con la panchetta perché non arrivava al lavello. Penso a mio zio, che a dodici anni tagliava il cuoio delle scarpe dal ciabattino per mantenere i tanti fratelli più piccoli, e di sera andava a segare qualche albero, per portare di nascosto la legna che riscaldasse la casa. Penso ai contadini che hanno sudato per una cesta d’uva, per un coniglio morto di vecchiaia, alle loro donne, che lavavano mastelli di panni al fiume, spaccando il velo di ghiaccio d’inverno. 

Non era meglio di oggi, il nostro paese, né minore la povertà e la crisi. Ma loro ce l’hanno fatta. Erano un popolo, erano famiglie, avevano un significato per le loro fatiche, le loro pene. Tutti questi giovani a piazza San Giovanni hanno diritto alla speranza, alla felicità. Chi li ha radunati ha il dovere di dire dove la pone, se si accontenta di sventolare bandiere o di raccogliere gli applausi per riprendere a vendere libri o dischi o fare ospitate in tv. Avrei voluto che, con la doverosa solidarietà alla mamma di Federico Aldrovandi, si fossero ricordati con pari affetto i poliziotti feriti a Torino, dai sanpietrini, dai picconi tirati da qualche sconsiderato attivista o antagonista che sia. Che si citassero almeno di sfuggita i resistenti di piazza Maidan, in Ucraina, i cristiani massacrati per la libertà di essere tali, in Siria. 

Nel pot-pourri propinato alla piazza, ci sarebbe stato posto per tutto, non solo per una parte. Per l’attenzione agli uomini, non solo all’ideologia. Per dire a quella folla che non basta ballare e battere le mani, bisogna anche muoversi e andare, condividere, rinunciare, dare soldi, tempo, lavoro, sorrisi, abbracci, coraggio. Se il cuore è piccolo a vent’anni,  e non desidera tutto, se ci si accontenta di desideri piccoli, e solo rivolti a sé, nulla cambierà mai, anche con leggi migliori, anche con una situazione economica migliore. Ci stordiremo sempre più di musica e grida, inutili, svaniti e perdenti.