È alto Joseph, ha il viso scavato, appena segnato da un accenno di baffi grigi. Misura i gesti e le parole, con un’eleganza antica che viene in dono a certe persone dopo molto dolore. Il suo incedere è dignitoso, eretto, lento. È un uomo che ha sempre dovuto chiedere al contegno di supplire alla mancanza di rispetto di altri. Ha quasi 50 anni e non ha una carta di identità, né assistenza sanitaria, non può guidare una macchina né muoversi liberamente dentro i confini volubili di due stati costretti alla condivisione di frontiere. 



Joseph è palestinese di nascita, vive da vent’anni a Gerusalemme, ma per il governo israeliano è un’ombra fastidiosa, una pratica che con puntualità si ripresenta sul tavolo del burocrate di turno, allenato a respingerla. La sua colpa è di essersi innamorato della persona sbagliata, una donna, Rami, cristiana come lui, ma con passaporto israeliano e residenza nella Città Santa. Lui no, non può diventare cittadino di Gerusalemme. È nato nella città sbagliata, Betlemme. La città dove è nato pure il Figlio del suo Dio. Ma questo non gli è stato di nessun aiuto con il governo di Tel Aviv. 



Nonostante abbia una lavoro importante nella Pontifical Mission, la struttura cattolica americana che dal 1949 si occupa di assistere istituzioni caritative nei territori palestinesi, non riesce ad ottenere la cittadinanza israeliana, e ogni anno deve sottoporsi all’umiliazione di mostrare bollette di acqua ed elettricità, ricevute sanitarie e busta paga se non addirittura arrivare ad esibire i suoi tre figli come prova incontrovertibile che la sua vita gravita intorno a ciò che ha più a cuore, la propria famiglia certificata come israeliana. 

Suo figlio maggiore, Yazan, ha la carta di identità, lui no. Non basta non poter accompagnare i ragazzi a scuola, essere costretto a ingaggiare autisti di fortuna per raggiungere i tanti luoghi di cui è supervisore oppure subire la mortificante trafila annuale per rinnovare il permesso di soggiorno. Quando va a trovare la sua famiglia a Betlemme da Beit Hanina, il quartiere a nord di Gerusalemme in cui vive, deve scendere dalla macchina al check point, come un pericoloso sospetto, e attraversare il muro che separa la sua vita di oggi dagli affetti di ieri. Il muro grigio e alto che ferisce come una lama una terra che dovrebbe conoscere solo la pace. 



Lo incontro nella parrocchia di San Giacomo, sorta accanto alle case costruite dalla Custodia di Terra Santa per dissuadere i cristiani dall’esodo. È la sua chiesa, la sua comunità, il suo mondo. È il luogo dove ritrova quell’identità messa al bando da un governo ottuso. 

Mi parla della quotidianità avvilente, dell’oppressione del sistema di sicurezza israeliano, dei 120mila cristiani che vivono sotto il governo di Tel Aviv ma che non sopportano più le tensioni e l’emarginazione politico-sociale. Mi racconta del fastidio per certe posizioni fondamentaliste e del desiderio sacrosanto di vivere semplicemente. In pace. E mi dice che domenica prossima, lui e la sua famiglia saranno alla tavola di Francesco. La sua è una delle cinque famiglie scelte per pranzare con il pontefice a Betlemme. 

Tutti hanno qualcosa di doloroso da raccontare, sono tutti “casi” che spiegano più di ogni altra cosa la difficile condizione dei cristiani in Terra Santa. 

Così nella sala da pranzo di Casa Nova, la struttura di accoglienza francescana a Betlemme, Bergoglio ascolterà la storia di una famiglia greco-cattolica di Haifa, sfollata da ’48 e poi la sofferenza di un nucleo di Gaza, separato dal resto del mondo, e ancora due genitori di Beit Jala che hanno un figlio rinchiuso in un prigione israeliana e altri di Betlemme a cui è stata confiscata la carta di identità. E poi ci sarà lui con Rami, Yazan e Linn la secondogenita, i due figli che hanno vinto la lotteria per sedersi alla tavola del Papa a scapito della più piccola, costretta ad accontentarsi della gita con le amiche di catechismo. Joseph sente la responsabilità di chi è chiamato non solo a sollevare il cucchiaio davanti al successore di Pietro ma a parlare a nome di un popolo che soffre. Gli amici della parrocchia gli hanno chiesto di dire al Papa che se non li vedrà per le strade di Gerusalemme non sarà perché non lo amano. Il governo israeliano è deciso a sopprimere la visibilità dei cristiani nei due giorni di visita papale adducendo a pretesto motivi di sicurezza. Un coprifuoco vero e proprio che non consentirà a Francesco di ricevere l’abbraccio del suo popolo. Joseph sa che dovrà spiegare cercando di lasciare a casa il rancore e la rabbia di anni. È abituato a sopportare, conosce la pazienza, ma teme che non riuscirà a trattenere le lacrime quando vedrà il suo Pastore. 

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