Jehad ha 21 anni, gli occhiali e la maglietta firmata. Balbetta l’italiano e guida il Suv del padre. Uno importante, a cui nessuno si sogna di mancare di rispetto. Per anni è stato l’ombra di Yasser Arafat, l’ha seguito in Libano, nelle infinite peregrinazioni attraverso il Medio Oriente, quando era braccato come terrorista, prima di diventare un Nobel per la pace. Il padre di Jehad era a capo dei servizi segreti, oggi si ritrova sulla poltrona di presidente della Corte Suprema Palestinese. 



La mamma è giordana. Dolcissima. Ha un cenerino brasiliano che sputa fuori pochissime parole in arabo e si posa solo sulla spalla di Jehad. Nella loro casa, presidiata 24 ore su 24 da miliziani dell’Olp, mi offre frutta fresca, noci e piccoli cetrioli. Un’oasi familiare sulla collina di Beit Jala, a pochi chilometri dal campo profughi di Dheisheh, un altro mondo. È lì che Jehad mi porta, novello Virgilio alle porte di quello che per molti è stato un inferno. Dheisheh è uno dei tre campi che circondano Betlemme, il più grande della Cisgiordania: 11mila abitanti, stipati in un chilometro e mezzo quadrato. Un cumolo disordinato e casuale di abitazioni che Papa Francesco vedrà sorvolando i territori, prima di atterrare nello spiazzo da poco asfaltato accanto alla scintillante università di Betlemme, ultimo sogno laico di Abu ‘Ammar. 



Bergoglio non penetrerà dentro il ghetto sovraffollato, simbolo dell’umiliazione palestinese. Si fermerà al Phoenix Center, un centro culturale alle porte di Dheisheh, un luogo desolato che oggi ospita più matrimoni che convegni. Nella sala che è ancora ricolma dei tavoli dell’ultimo pranzo di nozze, incontrerà i bambini del campo, ma anche quelli di Aida e Beit Jibrin: la quarta generazione di profughi, i più penalizzati dal reticolato di filo spinato che circonda il campo. Piccoli che come ci racconta Jehad non hanno mai visto il mare, e non si sono mai spinti fino a Gerusalemme, la città santa distante pochi chilometri. 



Sono i pronipoti di quegli uomini e quelle donne costretti alla fuga durante la guerra del 1948, quando i loro villaggi furono occupati dall’esercito israeliano. Uomini e donne incapaci di immaginare un futuro lontano da quella specie di paesotto, aggrappati come sono al passato e al dolore dell’esodo. Jehad mi dice che non vogliono stare qui, ma devono. 63 anni fa erano scappati con pochi fagotti dalle loro case, prendendo solo la chiave, e non vi hanno più fatto ritorno. Hanno perso tutto tranne la memoria della loro terra. Che non è poi tanto lontana dal fazzoletto provvisorio in cui vivono. Anche chi ha possibilità economiche – spiega – non se la sente di abbandonare lo status di profugo, perché altrimenti perderebbe anche l’unica cosa rimasta: l’identità. 

Mi mostra l’ingresso con i tornelli, Jehad, un ammasso di ferraglia diventato simbolo della segregazione subita ai tempi della prima Intifada, nel 1987. Si staglia isolata, un monumento all’orgoglio ferito, assediata dalle erbacce. Più avanti il centro sociale, oggi trasformato in bed & breakfast per pacifisti in cerca di emozioni forti. Salendo le scale, le pareti ospitano i murales che celebrano l’epica della lotta contro l’oppressore, mentre una sala impolverata ospita vetrine con i rimasugli di tradizioni che non esistono più. Negli anni della resistenza armata era il luogo dove si ritrovavano le menti più acute: proprio da Dheisheh, infatti, sono usciti i più noti intellettuali palestinesi, mentre intorno al presidente Abu Mazen, negli ultimi decenni è maturata la coscienza politica di al Fatah.

Insieme ci addentriamo nel campo, strade dissestate, muri frantumati su cui campeggiano i graffiti che celebrano i martiri, donne con lo chador che sbucano da case senza logica né infrastrutture. Jehad mi porta da sua zia, dal 1993 non esce dal campo. Thuraja è sotto shock e in un arabo veloce e gestuale racconta l’irruzione in casa, la notte precedente, di un commando militare israeliano. Cercavano un ragazzo, ma la famiglia di Thuraja è sempre sotto osservazione da quando uno dei suoi figli è stato espulso dal paese per motivi politici. Vive in America da 14 anni, dopo 3 di latitanza. Insegna in un’università statunitense. La settimana scorsa ha assistito alla festa di fidanzamento della sua unica figlia via skype. I militari israeliani non hanno bussato. Sono entrati e basta. Hanno radunato la famiglia e iniziato a verificarne i componenti. Poi hanno ispezionato la casa, urlando e minacciando, con le armi spianate. Uno di loro ha urinato contro il muro, un altro ha preso a calci il cane che abbaiava. Poi sono andati via. Senza portare via nessuno. 

Thuraja non piange né impreca. Più che rabbia mostra incredulità mista a rassegnazione. Ha telefonato al fratello importante e ha raccontato tutto. Per cronaca, non per delazione. Poi le dico che sono nel campo per capire cosa racconteranno al Papa. Lei si illumina e utilizzando il suo arabo plateale mi dice che lo ama Francesco, che lo aspetta come nel 2000 aspettò Giovanni Paolo II. Lo ama, lei musulmana, perché comprende le sofferenze del popolo palestinese. Mentre mi serve un tè scuro anche Jehad mi confida che il suo più grande desiderio è incontrare il Papa e potergli stringere la mano. Ha sfinito il padre ed è riuscito ad ottenere uno dei preziosissimi biglietti per la messa nel piazzale della mangiatoia a Betlemme. Lui che viene da una laicissima famiglia islamica. 

Mi racconta che s’incanta quando lo vede in tv e che lo capisce persino lui, con il suo italiano stentato, quando parla. Ha capito che sta con i poveri e con chi è senza giustizia. E questo basta. 

Thuraja prima di salutarmi mi mostra il suo tesoro. Una vecchia chiave arrugginita. Gliel’ha data sua madre, la nonna di Jehad, prima di morire. È la chiave della casa che la sua famiglia era stata costretta a lasciare nel villaggio di Zaccaria, in Galilea. Prima che il capofamiglia fosse ritrovato nella cella frigorifera dell’ospedale, con un piccone conficcato nella schiena, ucciso da un colono. La chiave di una casa che ora non c’è più. Lei la stringe come il bene più prezioso. In quel pezzo di ferro è racchiuso tutto il dolore della sua famiglia.