Vera Baboun è una bella signora. Ha occhi magnetici di un verde brillante, che quando ti si piantano addosso ti fanno venire i brividi, e un piglio deciso. È una mamma. A 49 anni è vedova, e fino al 2012 era la preside della scuola cattolica di Beit Sahour e docente di letteratura americana nell’Università di Betlemme. Dal 2012 è anche il sindaco della cittadina in cui è nato Gesù. Si è buttata in politica perché vuole bene ai suoi cinque figli. Vuole per loro un destino diverso da quello che sembra riservare il Muro della vergogna. È una donna pratica, Vera, indaffaratissima nel suo ufficio affollato di bandiere, quadri di Yasser Arafat e Abu Mazen e poltrone di pelle sintetica. Sul tavolo mi fa trovare un vassoio di croissant al cioccolato e tazze per il tè. E già per questo la adoro. 



È elegantissima in un completo blu navy. Poi la sento parlare e capisco perché il 92% dei palestinesi che abitano a Betlemme l’ha voluta come amministratore e rappresentante politico. Per decisa volontà di Abu ‘Ammar, il sindaco della città in cui in pochi metri si rincorrono il suono delle campane della Basilica della Natività e la voce del muezzin deve essere cristiano. Così come il vice sindaco. Cambiano solo le confessioni religiose. Con un cattolico sulla poltrona più alta il vice deve essere ortodosso, e viceversa. Lei risponde ai requisiti. È cattolica. La prima donna cattolica ad occupare un posto così alto nei ranghi governativi dell’autorità palestinese. 



Senza fronzoli entra subito nel merito: Betlemme aspetta il Papa. Arriva in un momento critico per il destino dello Stato Palestinese, è l’uomo della speranza e qui di speranza c’è bisogno come di aria per respirare. Come da copione per ogni palestinese che si rispetti parla subito del Muro. Ma lo fa in maniera inedita per me che ho già raccolto centinaia di storie laceranti. Non mi parla solo di quella barriera che chiude e divide la città dalle sue risorse e dalle sue interazioni, ma anche di quella frattura che lei avverte come pericolosissima. Scandisce le parole, fa una pausa ad effetto, da politica consumata e mi spiega che quel muro a Nord, il muro tra Betlemme e Gerusalemme, vuole dire un muro tra i due momenti più importanti della storia della Salvezza, la Natività e la Resurrezione. Interrompe la strada della fede, è qualcosa che ha a che fare con il cuore degli uomini.



Per questo sarà importante che Francesco veda e oltrepassi quel muro. “È il solo che, con chiarezza di parole e gesti, sostiene gli emarginati, i deboli, i poveri, tutti coloro che sono oppressi e discriminati” − mi spiega − “e questo perché lui crede che siamo stati creati come umanità in equità, eguaglianza e giustizia”. Valuto ogni sua emozione, cerco di scrutare i suoi occhi glaciali. E capisco che ci crede, non sta facendo tattica. Per lei, sindaco di Betlemme, cristiana e palestinese, è giunto l’istante della decisione, il momento di cogliere se non creare una possibilità. “È lui il leader?” incalza, “Sì, lui è il leader” si risponde. “Può lui raccogliere intorno a sé la buona volontà delle parti?” continua. E ancora quella certezza incrollabile, “sì, credo che possa e debba farlo. 63 anni di oppressione e discriminazione sono abbastanza”. 

Vuole la pace Vera. La vuole per i suoi figli e per quelli dei musulmani e degli ebrei, per la Palestina e Israele, per le donne come lei stufe di piangere i morti. “Betlemme è la città che invia un messaggio di pace dappertutto, non è così?”, e allora facciamola questa pace. Obietto timidamente che non è il momento migliore, che l’accordo tra al Fatah e Hamas siglato poche settimane fa non ha proprio posto le giuste condizioni e lei subito mi stoppa. “La riconciliazione è un dovere. Non possiamo creare una pace esterna se non siamo riconciliati interiormente. Se non abbiamo una visione unitaria. Questa riconciliazione tra i figli della stessa nazione era necessaria, ci mette insieme sullo stesso piano”. 

E quando la porto all’evidenza che l’accordo interno è un alibi facile per il governo di Tel Aviv, lei ritrova l’orgoglio palestinese. “È un problema loro, non nostro. Per creare un cambio di passo e le condizioni per lo sviluppo dei negoziati devi decostruire la tua visione e sfortunatamente chi è al tavolo dei negoziati considera i fattori solo dal punto di vista israeliano, trascurando il punto di vista palestinese”. La riporto su Francesco e le chiedo ancora perché insistono su quel maledetto muro. Lei non perde la pazienza e mi spiega che “fare ‘googling’ intorno al muro non è vivere il muro”. Ritrova i toni da mamma e mi racconta come per lei e per i suoi figli, e gli amici dei suoi figli, il muro imprigiona, restringe, mortifica la loro esistenza. “Non siamo animali. Siamo esseri umani. I nostri bambini, i nostri ragazzi hanno diritto ad una visione oltre l’orizzonte, il muro la taglia in due”. 

E poi viene fuori l’educatrice, la sensibilità di chi ha la passione per l’insegnamento. “I giovani palestinesi saranno i leader di domani, lasciateli crescere sani. Un muro fisico oggi può diventare un muro interiore, psicologico”. Per questo la visita di Francesco è così importante: sperano davvero che l’uomo del dialogo possa prenderlo a calci quel Muro. E possa parlare a tutti, musulmani, cristiani ed ebrei. Poi mi confida il dono che farà a Bergoglio. Sta preparando una scultura con la base a stella, per ricordare il luogo della nascita di Gesù, con su minareti e campanili. Ne ha fatte fare due versioni, in ulivo e in pietra, a due artisti diversi. Sceglierà all’ultimo, seguendo l’ispirazione. “E da Papa Francesco cosa vorrebbe?” le chiedo. Certa di una risposta politica rimango spiazzata quando mi dice che chiederà di costruire un ospedale cardiaco. 

In fondo è sempre una donna. Pratica. 

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