Una donna si è ammazzata di cassa integrazione, e non è solo affar suo. Maria Baratto, questo il nome, aveva scritto nel 2011 un articolo in cui raccontava che un suo collega aveva appena tentato il suicidio e spiegava che «non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti». Adesso, è cronaca di ieri, chi ci ha lasciato le penne è lei. Mi fa piangere questa donna che se ne va a morire da sola. I suicidi vorrebbero che il loro fosse solo un fatto privato ma non è mai solamente una questione di chi si ammazza. Gli omicidi ci toccano di più perché rimane l’assassino in giro, invece i suicidi, come Maria Baratto, chiudono la porta da dentro, non vogliono essere disturbati nel mentre e nel dopo. 



Il vero suicida non lascia biglietti che si possono trovare prima e non fa telefonate mentre si ammazza. Il vero suicida lo trovi morto, e solo dopo un po’. Perché vuole essere lasciato solo anche da morto come lo era da vivo. È la solitudine, l’assassina del suicida che dobbiamo imparare a temere. Che non dobbiamo lasciar andare in giro a piede libero. Del suicida mi spaventa non solo la violenza (particolarmente efferata in questo caso) ma soprattutto la violenza della solitudine che c’è prima: perché quando pensi di ammazzarti sei sempre solo. Scrivo questo articolo per sbattere in gabbia la solitudine che ha ucciso la signora Baratto: lei non risorgerà ma almeno mettiamo dentro l’omicida.



La solitudine, per ammazzare, questa volta ha usato il coltello della cassintegrazione: la crisi ha cambiato le nostre cose e le nostre case. Voglio parlare della mia stanza. Con questa crisi, le nostre case sono con i muri di vetro. Tutti siamo toccati dal “di meno”. Se non è il nostro, è quello del fratello, del vicino, dell’amichetto del figlio. Nessuno può dire in coscienza di non vedere la sofferenza altrui: nessuno può dire “non sapevo”.

Il dolore nostro si vede e il dolore degli altri pure. 

Perdere il lavoro è perdere tutto, soprattutto se a 22 anni montavi da sola il tergilunotto dell’Alfa 33 alla Fiat di Nola (Napoli). “Se c’è la salute c’è tutto” è una sciocchezza perché noi uomini non siamo animali sani: siamo esseri umani. Il corpo sano non è quello solo con i valori giusti ma quello con un progetto e con un presente che ti permette di vedere il progetto. Il futuro è un bel panorama ma ha bisogno di un belvedere: che te ne fai di un panorama se sei davanti al muro?



Perdere il lavoro o, peggio, essere per anni sul punto di perdere il lavoro, è non vedere più l’orizzonte della vita perché ti stanno costruendo un muro attorno. Colleghi che venivano licenziati e cominciavano a morire.

Maria denunciava quello che succedeva, e cioè che arrivavano i cartellini e la speranza scemava.

La speranza ha bisogno di un po’ di certezza per esistere. Ma, soprattutto, la speranza non va d’accordo con la solitudine: per sperare bisogna essere almeno in due perché gli occhi per vedere devono essere almeno quattro quando ancora non si vede niente.

La speranza ha bisogno di due cuori per dirsi che ce la si fa.

La speranza ha bisogno di quattro mani per apparecchiare qualcosa a tavola nell’attesa che il futuro sia pronto.

Non voglio fare poesia davanti ad una donna che si è accoltellata la pancia fino a morire, ma voglio dire che il suicidio inizia quando ci chiudiamo dentro casa, dentro la cantina, dentro il garage, dentro l’auto. Finché sfianchiamo gli amici al telefono di notte, finché blocchiamo la fila al supermercato perché ci sfoghiamo con la cassiera, la speranza è lì con noi. Da vivere almeno in due.