Tra coloro che sono venerati dalla Chiesa cattolica in occasione del 27 maggio, un posto del tutto particolare spetta a Sant’ Atanasio Bazzekuketta, la cui beatificazione avvenuta nel 1920, a opera di Benedetto XV, insieme ad altri ventidue martiri ugandesi, sollevò non poco scalpore. Uno scalpore derivante in particolare dal fatto che per la prima volta dei sub-sahariani erano riconosciuti martiri, diventando oggetto di venerazione. La vicenda in questione, avvenne sotto il regno di Mwanga, giovane sovrano dal carattere indocile descritto dalle cronache dell’epoca come una persona dissoluta e probabilmente non in pieno possesso delle sue facoltà mentali. Dopo essere andato a scuola presso i Padri Bianchi del Cardinale Lavigerie ed essere assurto al trono, lo stesso Mwanga aveva inaugurato il suo regno con l’appoggio dei cattolici e degli anglicani, opponendosi alla tirannia di Kalema, il re musulmano contro il quale era stato formato un fronte comune. Sia lui che il suo predecessore, Mutesa, avevano accolto con favore l’arrivo dei missionari in Uganda, favorendone l’opera di evangelizzazione. Ben presto, però, lo stesso sovrano aveva iniziato a guardare con grande sospetto al cristianesimo, visto come un pericolo alle tradizioni tribali e alla sua stessa dissolutezza, che stava emergendo con sempre maggiore chiarezza. Un sospetto creato ad arte dagli stregoni, che avrebbero visto messo in grave dubbio il loro stesso ruolo nel caso di un ulteriore rafforzamento dei cristiani a loro danno. Il primo frutto di questo clima avvelenato fu la persecuzione avviata nel 1885 della quale fu vittima illustre anche il vescovo anglicano Hannington, che venne giustiziato. Una persecuzione sanguinosa, nella quale centinaia di giovani cattolici avrebbero in seguito trovato la morte. Tra di essi anche il paggio reale, Giuseppe Mkasa Balikuddembè, un catechista di appena venticinque anni appartenente al clan Kayozi, colpevole di aver rimproverato a Mwanga l’uccisione di Hannington e di aver difeso i giovani colleghi dalle squallide avances sessuali del sovrano. A sostituirlo fu chiamato Carlo Lwanga, appartenente a sua volta al clan Ngabi, anche lui presto oggetto delle morbose attenzioni di Mwanga e non di meno, anche lui cattolico. La sua sorte fu presto segnata e nel 1886 anche lui fu condannato a morte, insieme ad un gruppo di cristiani e a quattro catecumeni, il più giovane dei quali appena quattordicenne. La loro uccisione venne però preceduta da una marcia verso Namugongo, la località nella quale sarebbe dovuta avvenire l’esecuzione, caratterizzata da modalità estremamente cruente, oltre che dal disperato tentativo dei familiari di convincerli all’abiura. A ogni crocicchio uno dei partecipanti a questa vera e propria marcia della morte fu infatti passato per le armi al solo fine di incutere terrore negli appartenenti al gruppo. Alcuni dei condannati vennero trafitti dalla lancia dei soldati, altri arsi vivi, tra i quali il gruppo che faceva capo a Carlo Lwanga.Fu invece costretto ad attendere il suo martirio Atanasio Bazzekuketta, custode del regio tesoro appartenente al clan dei Nkima, ucciso infine il 27 maggio, dopo aver dato prova della stessa estrema dignità dei compagni di sventura, un atteggiamento il quale impressionò non poco coloro che assistettero all’esecuzione. Non un gemito infatti sortì dalle bocche degli sventurati, tanto da tramutarsi in una vera sconfitta per la fazione avversa al cattolicesimo, la cui fede in Uganda sarebbe presto stata rinvigorita proprio dall’esempio dato dai martiri, diventata presto un seme in grado di provocare un grande numero di conversioni, come del resto era stato vaticinato da Bruno Sserunkuuma poco prima di essere anche lui sottoposto al martirio.



La persecuzione si sarebbe chiusa solo nel gennaio del 1887, quando ad essere ucciso fu Giovanni Maria Musei, uno dei servitori di Mwanga il quale aveva deciso di confessare del tutto spontaneamente la sua fede di fronte al primo ministro del sovrano, venendo subito sottoposto alla decapitazione. La canonizzazione di Carlo Lwanga e dei suoi ventuno compagni di sventura ha avuto luogo nel 1964 ad opera di Paolo VI e il luogo in cui è avvenuto il loro martirio è oggi gratificato dalla presenza di un santuario, edificato nei pressi di quello eretto dai protestanti per celebrare i cristiani della loro confessione, anch’essi vittime della follia di Mwanga. Uniti peraltro nella sventura ad alcuni musulmani i quali avevano riconosciuto a loro volta che il Dio dei loro antenati era lo stesso cui fanno riferimento Bibbia e Corano.

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