Quando lo abbiamo visto trotterellare verso la coda dell’aereo, pacifico e lieto, anticipato da un gruppuscolo di monsignori, gendarmi e personale della compagnia di bandiera israeliana, giuro abbiamo universalmente pensato, sebbene di un Papa sia più che scandaloso anche solo pensarlo, che si fosse fatto di qualcosa, insomma che avesse assunto una sostanza stupefacente, un qualche polverina, un mix vitaminico o si fosse sottoposto ad un dopaggio preventivo per affrontare, eterno Daniele, la fossa dei leoni.
C’è da dire che non ce ne sarebbe stato un gran bisogno, di forza e prestanza, per domare quelli che sembravano più gatti sonnecchianti che belve feroci. Delle fiere, i 70 giornalisti annientati dai ritmi estenuanti e micidiali del secondo viaggio apostolico di Francesco in Terra Santa, avevano solo le capigliature arruffate e stoppose di vento, sudore e ore fortuite di sonno rubate nei posti più improbabili (ho visto gente dormire in piedi appoggiata al cavalletto della telecamera), ammansiti da una giornata di lavoro lunga 17 ore, dalla densità impressionante degli appuntamenti papali.
Statisticamente, solo nella mattina di lunedì 26, il Papa ha partecipato ad un evento ogni 36 minuti, in una maratona che è partita dalla spianata delle moschee nella città vecchia di Gerusalemme per finire all’Istituto Notre Dame, di fronte a “Porta Nova”, dove ha pranzato dopo un giro a tappe che ha abbracciato anche la nuova periferia ebraica della Città Santa. Poi c’è stato anche il pomeriggio, tra il monte degli Ulivi e il Cenacolo al monte Sion, per non parlare della cerimonia di congedo al Ben Gurion, con tanto di trasferimento in elicottero.
Lo avete capito insomma: un massacro. Eppure lui fresco, fresco, ci raggiungeva per l’ultimo impegno preso, la promessa fatta, e mantenuta, di una conferenza stampa ad alta quota. “Mezz’ora”, aveva imperiosamente pregato Padre Lombardi, “non più di sei-sette domande, il Papa è stanco”. È umano abbiamo pensato. E invece no. WonderFranci non solo non mostrava segni di cedimento, ma era più che contento di incontrare giornalisti di mezzo mondo sfatti, che sotto sotto speravano in un rituale botta e risposta da liquidare con poco impegno prima della cena liofilizzata a bordo dell’aereo che riportava il gruppo a Roma e del pisolino finale. E invece no. Prima domanda, toccata a me (sorvolo sul mio pietoso stato psicofisico impietosamente immortalato dai colleghi fotografi, che mi hanno graziato solo evitando di inquadrare le infradito in cui avevo infilato i piedi lessi dal caldo e dalle scarpe torturanti). Ci dica la verità quei gesti che hanno fatto il giro del mondo, che hanno fatto piangere, commuovere, stupire e in qualche caso anche arrabbiare, li aveva pre-meditati?
Il Muro toccato a Betlemme, il bacio sulle mani dei sopravvissuti all’olocausto, la preghiera sintonica e simultanea con Bartolomeo nel Santo Sepolcro, e poi quel coupe de theatre con cui ha rivitalizzato un processo di pace al collasso, come le sono venuti in mente e che ricadute avranno? Risposta disarmante: “i gesti più autentici sono quelli che non si pensano”. Sì è vero − ci ha detto − che l’incontro di preghiera con Abu Mazen e Peres, eterni amici-nemici, voleva farlo durante la sua visita a Gerusalemme (Bergoglio non è uno che perde tempo, idea e fa) ma non c’erano le condizioni e così a pensato di invitarli a casa, in Vaticano. Ma per il resto, gli è venuto lì per lì, di piegarsi sul dolore di chi aveva attraversato e superato l’orrore del ‘900 oppure di segnarsi con la Croce davanti al muro che separa la Nascita dalla Resurrezione di Gesù, Betlemme da Gerusalemme.
E poi a raffica, una domanda dietro l’altra, dodici in tutto, sull’universo mondo vaticano e confini. Gerusalemme? Città delle pace per le tre religioni, poi facciano quello che vogliono a me sta bene, ma sarebbe meglio tenerla fuori dal negoziato per farne un centro con uno status proprio. E ancora: Bartolomeo? Un fratello che la pensa come me: l’ecumenismo si fa per strada o, come Antenagora suggeriva a Paolo VI, esiliando tutti i teologi su un’isola. I passi avanti? Abbiamo intenzione di chiedere al concilio pan-ortodosso di cercare una soluzione per la celebrazione comune della Pasqua, non si può trovarsi tra fratelli e dirsi “Ma dimmi il tuo Cristo quando resuscita?”. E così via in un continuo di battute fulminanti, giudizi dati con una libertà e sincerità a palate, scoop forniti ad ogni risposta e empatia costante.
Capolavoro la ribadita condanna degli abusi su minori da parte di chierici o religiosi: nessun figlio di papà, nessun salvato, tre vescovi già sotto indagine e uno già giudicato colpevole. Tolleranza zero, lo slogan della crociata di Benedetto XVI, accostato all’immagine efficacissima dell’abuso paragonato ad una messa nera. E man mano che rispondeva su riforme, conti dello Ior, scandali finanziari, bisticci gerarchici e cardinalizi su Sinodo, famiglia e comunione ai divorziati, populismo e disoccupazione giovanile (di cui ha citato cifre esatte di almeno 4 diversi paesi europei con dati scorporati per fascia d’età), Francesco testimoniava alle testate di mezzo pianeta (compresa una giapponese ansiosa di conoscere dettagli sui prossimi due viaggi in Asia) che può anche avere 76 anni e mezzo polmone in meno, ma il governo della Chiesa lo ha in mano saldamente.
Ed è una fortuna che tanta lucidità non sia “sintetica”, ma frutto di un’evidente Grazia di stato. Così è sembrata inopportuna e stonata, almeno a me, la domanda che ha scatenato un bel po’ di reazioni, e a cui lui comunque non si è sottratto, quella sulle sue possibili dimissioni: “il Signore mi dirà cosa fare” ha risposto Bergoglio. Spiegando che Benedetto, con il suo atto rivoluzionario, ha aperto una porta (anzi, ha fatto capire, anche un portone) ai papi emeriti. C’è da dire che l’evento del pensionamento di Francesco, che vista l’energia e la forza con cui ha affrontato un viaggio massacrante attraverso tre stati e mille problemi, sembra, per fortuna, molto, molto lontano.