Benvenuta Maya! Sei arrivata tra noi nata da una madre coraggiosa. Ti ha portato nel grembo e ti ha partorito in catene. Noi poi pensiamo a tutte le donne che si ritrovano a fare i conti con la maternità; a volte queste madri fanno nascere il proprio figlio tra mille attenzioni, in situazioni serene, con i propri familiari accanto e riposano con il bambino forse in una stanza piena di luce e di colori soffusi. C’è anche un profumo di fiore? Forse.



Per Meriam non è stato così e non è così tuttora. Le pesano addosso catene di tutti i tipi, quelle pesanti di ferro e quelle imposte in nome di una religione che non sa riconoscere nel Dio che professa la libertà e il grande valore che l’uomo incarna. E a tutte queste altre catene vogliamo pensare. E’ riconosciuta alla donna la sua area di libertà? Non sempre, viene da rispondere.



Da noi, in Italia, vige una grande libertà, che viene identificata con la libertà della donna quando si parla di interruzione volontaria della gravidanza. Al Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli ne incontriamo tante, donne private della loro libertà, quella di far nascere. Quando una donna non può permettersi di mantenere un bambino l’unica strada che le viene indicata è quella dell’aborto volontario; “quando non si può, non si può e basta”, mi sono sentita dire qualche giorno fa. E queste parole mi pesano come catene.

Nella nostra città e nel nostro tempo quando una donna annuncia la propria gravidanza frequentemente si sente chiedere: “Hai intenzione di tenerlo?”. Come pesano queste catene. Meriam ha partorito, e da una donna detenuta e incatenata è nato un bambino libero. Libero perché sua madre ha rivendicato la sua libertà, che nessuna catena potrà imbrigliare. La libertà della sua fede in Qualcuno che ci ha liberato definitivamente.



Sono dunque di tanti tipi le catene che imbrigliano la donna: i condizionamenti socioculturali, i legami familiari, e la situazione di povertà a volte anche grave. In tanti ci siamo mobilitati a livello internazionale perché Meriam possa tornare libera, e forse qualche risultato è stato ottenuto.

Dobbiamo però considerare anche tutti gli altri tipi di catene, perché alla donna sia riconosciuta la libertà di far nascere. Per questo serve ugualmente una mobilitazione, quella della solidarietà; queste donne ci camminano accanto tristi, sole, abbandonate, e noi forse non ce ne accorgiamo neppure.

Al Centro di Aiuto alla Vita, però, proprio per l’accoglienza, la condivisione e l’accompagnamento, quasi diciassettemila bambini sono nati, liberando così la madre dalla pesante catena che l’aborto procurato lascia inesorabilmente.