Al punto in cui siamo non dovremmo più stupirci di niente, quando apprendiamo una notizia. La soglia della nostra alienazione rispetto a eventi tragici si alza quotidianamente senza chiederci il permesso. Forse dall’11 settembre ci siamo gradualmente abituati al prezzo da pagare per essere individui del terzo millennio ai quali niente di quello che accade a migliaia di chilometri può sfuggire. Cnn docet.
È anche vero che per avere la dose quotidiana di dolore mediatico non abbiamo bisogno di andare lontano. Soprattutto per assistere alla disperazione di altri esseri umani. Non mi riferisco alle centinaia di disoccupati o giovani italiani senza prospettive, che pure pretendono la loro parte della nostra attenzione, né alle donne maltrattate o alle prostitute ammazzate. Tutte queste storie, che pure sembrano inventate per quanto assurde e orribili e tristi, talvolta vengono superate da altre che ci sembrano addirittura non umane. La realtà supera sempre la finzione e basterebbe “copiare” per diventare uno scrittore di noir con un certo successo.
L’Italia, grazie alla sua posizione geografica, in passato meta di popoli ricchi di ogni cosa che hanno consentito che diventassimo culla di civiltà e cultura, oggi, per lo stesso motivo, è crocevia di morte e disperazione. Siamo l’approdo dei disgraziati, di quelli che hanno perso tutto e dunque non hanno nient’altro da devolvere se non la propria vita. Fuggono dalla follia di un despota, da lotte fratricide, da rituali tribali, dalla povertà e dalla violenza. Da un mondo ribaltato in cui la pace si trova solo da morti, un mondo che noi possiamo capire solo con difficoltà.
Dunque, l’ennesimo carico umano è giunto in Sicilia, a Pozzallo, soccorso dalla Marina militare. Questa volta niente donne incinte o semi-partorienti, niente neonati o bambinetti. Questa volta, colpo di scena, arrivano 289 persone e un cadavere. La Squadra mobile di Ragusa sta indagando sulla dinamica cercando di approfondire l’orrore, perché ancora non è chiaro se il ragazzo eritreo di 20 anni sia morto nella ressa al momento dell’imbarco (in Libia) o durante il viaggio. Alcuni testimoni hanno riportato di essere stati bastonati dagli scafisti, colpiti sul collo e sulla testa (è il caso del povero ragazzo). Altri hanno detto di aver visto alcuni accomodarsi sul cadavere, essendo il gommone piccolo e gli occupanti molti.
E non è tanto la notizia in sé che colpisce perché di sbarchi con epiloghi tragici ce ne sono già stati, e per parare il colpo possiamo ricorrere a quell’assuefazione sedativa di cui sopra. Ma fa male la brutalità che trasuda la scena che ci propone anche la più asettica Ansa e non c’è assuefazione che tenga.
Da una parte possiamo immaginare i disperati, che per salire su un gommone che li porterà in acque forse non sicure (molti non sanno nuotare!) sono disposti a tutto, dopo che tutto hanno venduto per procurarsi il denaro per il viaggio. C’è l’incertezza, la fame e la sete, il dolore fisico, che male c’è a sedersi su un corpo? Tanto questo è ormai morto, bisogna adattarsi.
Dall’altra abbiamo gli scafisti, che fanno parte di una rete ben organizzata da chi lucra su questi scambi. Tutti sanno ma nessuno ferma. Fanno un lavoro per cui non è necessaria la coscienza, vengono pagati in dollari e considerano i “passeggeri” delle bestie. Non ci siamo ancora dimenticati della strage di clandestini (339 morti) dell’ottobre del 2013 a largo di Lampedusa, la più grande tragedia del mare.
Quante ancora ce ne saranno? Tante, come tante le madri che piangeranno i figli che non faranno più ritorno, ammazzati da chi invece doveva salvarli.