Va ricordato soprattutto il nome di San Getulio tra i santi e beati celebrati dalla Chiesa cattolica nella giornata del 10 giugno. A renderlo oggetto di giusta venerazione è in particolare il martirio cui fu sottoposto insieme ai compagni di sventura Amanzio, che era il fratello, Primitivo e Cereale dall’imperatore Adriano. Il gruppo in questione è di conseguenza considerato nell’ambito dei Protomartiri dai Sabini. Le notizie su San Getulio non sono organiche e certificate, bensì derivanti dalle leggende intessute nel corso degli anni e da fonti difficilmente verificabili. Il suo nome ha un’origine squisitamente etnica e si riferisce ai Getuli, una antica tribù della parte settentrionale del continente africano.



La sua nascita dovrebbe essere avvenuta a Gabio, un’antica città della Sabina situata nei pressi di Cures, la quale sarebbe poi stata distrutta nel corso delle frequenti invasioni barbariche. Proprio per la sua nascita viene quindi indicato come Getulio gabiese. Il suo martirio viene descritto con dovizia di particolari dalla Passio, secondo la quale il gruppo da lui formato insieme con gli altri condannati sarebbe stato martirizzato proprio nei pressi di Gabio. In base a questo scritto Getulio e gli altri sarebbero stati legati a un palo che fu quindi dato alle fiamme. Il fatto che lo stesso palo, in maniera sorprendente non avrebbe propagato le fiamme agli uomini, avrebbe quindi spinto i carnefici a ucciderli coi bastoni, usati contro il cranio dei condannati sino a romperlo. La tragica operazione sarebbe quindi stata completata con la decapitazione. Modalità cruente che erano però quasi una regola dell’epoca. 



Anche il Martirologio Romano parla di San Getulio, ricordandolo come uomo estremamente dotto e marito di Santa Sinforosa, da cui aveva avuto ben sette figli. Catturato da Licinio Consolare su preciso ordine di Adriano, il procedimento della sua morte viene confermato in toto, aggiungendo però le torture preliminari cui fu sottoposto insieme al fratello Amanzio, a Cereale e a Primitivo. Sempre secondo il Martiroglio Romano, al termine della barbara cerimonia i resti dei martiri sarebbero stati pietosamente raccolti da Santa Sinforosa, al fine di dare loro degna sepoltura nell’arenario che venne predisposto all’interno del podere da lui lavorato. Il terreno in questione viene indicato anche in molte cronache d’epoca come Capris in Sabina, posto nelle vicinanze del corso superiore del Tevere, all’interno del territorio del piccolo centro di Montopoli. Ancora oggi ne fa parte, con il nome di Villa Capriola, e la sua concessione al paese sabino posto tra Rieti e Roma fu disposta da Nicolò II, abate di Farfa nel quattordicesimo secolo. Nel corso del Medioevo, lo stesso territorio sarebbe poi stato ribattezzato Corte di San Getulio, per effetto della costruzione di una chiesa che avrebbe custodito per lungo tempo le sue spoglie. 



Nell’anno 867 al fine di evitare che i le sue spoglie fossero oggetto di profanazione nell’ambito di una delle tante scorrerie dei Saraceni, un altro abate di Farfa, Pietro, decise collocarle all’interno del monastero, dando vita a una solenne cerimonia che fu onorata dalla grande partecipazione dei fedeli. 

Attualmente i resti di San Getulio sono collocati nella capitale, sull’altare maggiore della chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, ove furono rinvenute insieme a quelle di Santa Sinforosa e dei loro sette figli. Autore del rinvenimento fu papa Pio IV, nel sedicesimo secolo, il quale decise di farle esporre alla venerazione popolare in un’urna costruita appositamente in vetro. Parte di queste preziose reliquie, tra le quali il capo mozzato di Getulio, furono quindi donate ai gesuiti da papa Gregorio XIII, nel 1584 e trasportate in una cappella situata nei pressi di Villa d’Este. Gli stessi gesuiti ne trasportarono invece altre nei loro collegi posti in Spagna e in India, oltre che in altri luoghi di culto posti all’interno del territorio romano. Proprio per tentare di frenare questa lenta emorragia di preziose reliquie del santo e della sua famiglia, Mariano Prebenedetti, governatore di Roma, decise nel settembre del 1587 di chiudere tutto il restante dentro un sarcofago marmoreo, lo stesso che è oggi posto sull’altare maggiore di Sant’Angelo in Pescheria, insieme ai resti mortali di San Ciro e San Giovanni.