Si conoscono le motivazioni della sentenza (162/2014) con la quale la Corte costituzionale, nell’aprile scorso, ha dichiarato incostituzionale il divieto di fecondazione eterologa, cioè con gameti estranei alla coppia infertile. “Avere figli” ha stabilito la Consulta “è espressione della fondamentale libertà di autodeterminarsi”. Quindi, vietare alle coppie sterili di ricorrere all’eterologa non ha fondamento nella nostra legge: “la determinazione di avere o meno un figlio” si legge nel dispositivo “anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali”. Tutto liscio, dunque? Non la pensa così Alberto Gambino, giurista, esperto di bioetica e docente nell’Università europea di Roma.
Professor Gambino, nella sentenza della Consulta si parla di “diritto di tutti ad avere un figlio”. È un’espressione forte, come la si può giudicare da un punto di vista giuridico ed etico? È davvero così?
La Corte si esprime in termini di “libertà fondamentale della coppia di formare una famiglia con dei figli”, ma in effetti quando il legislatore (e qui la Consulta si fa legislatore) predispone norme giuridiche perché quella libertà diventi tecnicamente una “pretesa” giuridica, siamo all’interno della categoria del diritto soggettivo, cui l’ordinamento deve apprestare strumenti di tutela per la sua attuazione. Ritengo questo scivolamento concettuale dalla categoria della libertà (ad avere figli) a quella del diritto un errore di prospettiva, in quanto l’oggetto di un diritto non può mai essere un essere umano, in questo caso la “creazione” di un essere umano.
Dunque ogni desiderio può essere un diritto davanti alla legge?
Qui il ragionamento della Corte è più complesso. Non si ragiona in termini di “desiderio” ma in termini di “diritto alla salute”, comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica. Dice la Corte: “non si tratta di soggettivizzare la nozione di salute, né di assecondare il desiderio di autocompiacimento dei componenti di una coppia, piegando la tecnica a fini consumistici, bensì di tenere conto che la nozione di patologia, anche psichica, la sua incidenza sul diritto alla salute e l’esistenza di pratiche terapeutiche idonee a tutelarlo vanno accertate alla luce delle valutazioni riservate alla scienza medica, ferma la necessità di verificare che la relativa scelta non si ponga in contrasto con interessi di pari rango”.
Ci spieghi, professore.
È, direi, un passaggio cruciale, ma non nuovo, in quanto già con la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza il tema della salute (nel caso della donna incinta), da elemento oggettivo e soprattutto legato a patologie fisiche, ha abbracciato forme di vulnus psichico, evidentemente sempre più ancorate a valutazione tutte soggettive e, per certi versi, intimistiche.
Ora si attua un “salto di qualità”, il diritto alla salute non è più richiamato in termini “difensivi” – preservo la mia salute attraverso la rimozione dell’insidia (nel caso il feto in grembo) −, ma in termini “offensivi”, ovvero per realizzare una pienezza procreativa attuo una pratica “terapeutica” che porta alla generazione di un essere umano. In effetti, a ben vedere, non si rimuove un ostacolo, ma si sceglie un’altra strada che sembra dare esiti equivalenti.
Si dice anche che con questa sentenza di fatto la legge 40 subisce un altro colpo, e che sta venendo smontata pezzo dopo pezzo. È così?
Certo, il divieto del’eterologa era centrale. Rimane comunque – e non va sottovalutato – il richiamo dell’articolo 1 al concepito come soggetto titolare di interessi giuridici, sebbene bilanciati al ribasso già con la sentenza del 2009, che ha aperto alla produzione di embrioni soprannumerari e alla loro crioconservazione. Altri divieti pregnanti sono quelli relativi al divieto di maternità surrogata e commercializzazione di gameti, su quest’ultimo occorrerà vigilare che proprio con la pratica dell’eterologa non venga aggirato dietro la voce insidiosa di “rimborso spese” al donatore.
Il ministro Lorenzin dopo la sentenza del 9 aprile aveva detto che era necessaria una nuova legislazione per evitare il caos. La sentenza dice che non c’è alcun vuoto normativo: “L’illegittimità della norma che vietava la fecondazione eterologa, ossia praticata con gameti provenienti da un donatore, non provoca alcun vuoto normativo”. Chi ha ragione? Il ministro o la sentenza?
Le sentenze vanno lette a fondo. La Corte dice testualmente che sono “identificabili più norme che già disciplinano molti dei profili di più pregnante rilievo”: dunque “molti”, non “tutti”. Il vuoto normativo c’è sicuramente in ordine alla normativa di dettaglio di carattere sanitario che riguarda la fase della donazione dei gameti. Inoltre c’è chi dice che non ci sarebbe un vuoto neanche sul tema dell’anonimato dei donatori: su questo sono d’accordissimo, infatti la Corte ci ricorda che va considerato definitivamente “infranto” – cito testualmente − “il dogma della segretezza dell’identità dei genitori biologici”.
La sentenza dice anche che fino a oggi le coppie andavano all’estero, producendo così “un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica”. Che ne pensa di questo passaggio?
Certo questa può essere una motivazione di tipo “sociale” rilevante, ma francamente ripugna l’idea che gli ordinamenti debbano “rincorrere” le pratiche di altri Paesi anche quando il proprio legislatore le considera illegittime. E fino alla sentenza della Corte l’eterologa era, per il Parlamento italiano, illegittima. Perché la Corte dovrebbe preferire l’opzione valoriale di un altro Paese?