Lo vedo tutte le settimane prendere con le sue mani bambini spaventati e urlanti, accarezzare le loro teste, consolarli in quel buffo “argentiliano”, stringendoli per un attimo dopo un bacio veloce per poi ripassarli indietro, di abbraccio in abbraccio fino ai legittimi genitori. E finisco per non commuovermi più. Ieri no. Quando Francesco ha afferrato l’ennesima bambina in lacrime per benedirla e cullarla, come farebbe un nonno, non ho potuto non pensare a quello che aveva appena detto: che avere timore di Dio significa sentirsi avvolti dall’amore e dalla protezione del Signore, proprio come un bambino tra le braccia del papà.
Ho cercato di ricordare se io mi sia mai sentita così. E mi è venuta in mente una vecchia fotografia in bianco e nero. Siamo in campagna, suppongo quella pugliese, dell’infanzia, e ci siamo io e mia sorella con cappottini chiari, arrampicate o appoggiate sulle gambe infinite e muscolose di un bell’uomo con i capelli neri lucenti, gli occhi profondi e scuri, il naso dritto, l’aria calma e seriosa. Mio padre. Le sue mani ci accolgono, strapazzano i vestiti perfetti, cercano di dare equilibrio alla furia di due bambine più che vivaci, quasi gemelle. Il sorriso, sul volto, è appena accennato, ma l’impressione è di aver sorpreso due folletti mentre attaccano una roccia. Lo scatto è rivelatore. Io e mia sorella abbiamo lo sguardo spaurito di chi non ama le fotografie. Non so perché ma fino all’ingresso nella scuola elementare non abbiamo una sola immagine in cui non siamo prossime al pianto. Si spiega con un terrore folle e inspiegabile, di entrambe, per il fotografo e il suo flash. Centinaia di scatti, in cui io e mia sorella sembriamo vicine a morte certa o destinate a infinite torture, sono stati conservati in scatoloni polverosi perché impossibili da recapitare, con biglietto di auguri, alla nonna lontana (al nord, eravamo migranti al contrario). I miei genitori avrebbero rischiato una denuncia per violenza domestica a giudicare dalla implacabile apparenza. Ecco, in quella foto no. Sul volto di quelle due bambine rimane la traccia dell’abituale terrore, ma le mani e i corpi sono addossati al “babbo”, ansiosi di trovare protezione e pace, consolazione e riparo. E mio padre è lì, bonario, disponibile a lasciarsi strapazzare, pronto a sorreggerci.
Credo che quello sia il momento di assoluta felicità che possa accostarsi a quanto detto dal Papa: timore di Dio, ovvero la consapevolezza della propria piccolezza, l’esperienza del limite, l’abbandono in braccia sicure e insieme la certezza di essere al riparo dal male. Accolte e amate. Io e mia sorella, con mio padre. Ognuno di noi, se ha avuto un buon padre, possiede un momento così. Prezioso e indimenticabile.
Francesco ha spiegato, con il suo stile plastico, che il timore di Dio è proprio nella docilità dell’abbandono, nel riconoscere con umiltà, rispetto e fiducia, la grandezza del Signore in cui il nostro misero Io annega. Felice.
Il timore di Dio, ha spiegato ieri mattina, il Papa, durante l’ultima catechesi dedicata ai doni dello Spirito Santo, è “prendere coscienza che tutto viene dalla grazia e che la nostra vera forza sta unicamente nel seguire il Signore Gesù e nel lasciare che il Padre possa riversare su di noi la sua bontà e la sua misericordia”. Perché noi, ha aggiunto, siamo “infinitamente amati”. Ed è questo che mi ha smosso e rivoltato: trovare ancora una volta la piena corrispondenza tra l’amore di Dio e quello di mio padre per me. La memoria di un abbraccio e il desiderio che sia eterno. Un riposo dalla fatica dell’essere, che non è però, lo ha detto ancora il Papa, passività e rassegnazione. I cristiani abbracciati da Dio non possono essere timidi e remissivi, ma “conquistati” dal suo amore si riscoprono pronti a “conquistare” il mondo. Proprio come i bambini che in braccio al papà ritrovano l’arroganza dell’infanzia, la spavalderia del sorriso e dello slancio, dopo l’esperienza della solitudine nel mondo. Timore di Dio che non è paura ma spregiudicatezza.
E non è finita qui. Bergoglio ha anche parlato del settimo dono dello Spirito Santo, come di un “allarme”, un campanello che mette in guardia dalla “pertinacia del peccato”. Scagliandosi infine non solo contro chi vive per potere, soldi e orgoglio, cose che non si possono portare dell’altra parte, ma anche contro i “corrotti”, coloro che sfruttano gli altri, li riducono in schiavitù o si arricchiscono fabbricando armi per fomentare guerre e violenze. Un Papa capace di passare dalla tenerezza di Dio per i suo figli agli accenti da Savonarola verso chi, ormai, ha un cuore corrotto e non riesce ad avere timor di Dio. Non può più sentire l’abbraccio del Padre, la dolcezza del suo amore, la misericordia del suo sguardo. Uomini che hanno perso la cosa più importante, la possibilità di essere felici.