Dopo diversi richiami al legislatore perché regoli le convivenze diverse dal matrimonio, da ultimo  anche tramite la conferenza stampa annuale del presidente della Corte costituzionale, con la sentenza annunciata ieri (di cui peraltro non si conoscono ancora le motivazioni) la Consulta ribadisce il proprio punto di vista sulla necessità che il Parlamento intervenga mentre dichiara incostituzionale la legge che impone lo scioglimento automatico del matrimonio nel caso in cui uno dei contraenti si sottoponga al cambiamento di sesso e ne richieda la trascrizione presso gli uffici di stato civile, come è suo diritto. 



In questo caso, l’ufficiale di stato civile non ha più il potere di trascrivere d’ufficio – oltre al cambiamento di sesso – anche l’annullamento del matrimonio.

L’ingarbuglio giuridico è di difficile razionalizzazione nell’epoca della libertà a tutti i costi e del diritto a determinare in modo autonomo le proprie scelte in materia di gender: se è possibile una cambiamento così radicale che interviene sulla natura delle cose (in questo caso sul sesso biologico) perché vietare che continui a sussistere un legame se questo viene accettato da entrambe le parti?  L’ordinamento non ha più basi valoriali condivise per imporre o per vietare e, pertanto, subisce una ulteriore decurtazione del suo essere ordinamento, che è ad un tempo ente ordinatore ed ente capace di ordinare. Deve ritirarsi da quel segmento della vita personale (ma anche sociale) che va sotto il nome di privacy e accontentarsi di regolamentare il traffico e la pressione fiscale, oltre naturalmente il settore dei delitti e delle pene, per ora solo sfiorata dall’ondata della privatizzazione ad oltranza.



La dichiarazione di incostituzionalità resta per ora inefficace. Ma si tratta di una inefficacia solo apparente. Se il Parlamento non interviene, lo specifico vincolo matrimoniale oggetto del giudizio (il caso, insomma) resta, pur avendo cambiato di segno, mentre nulla muta per quanto riguarda il matrimonio in generale,  a riprova del fatto che nessuno è onnipotente e che, nella trama delle istituzioni, ciascuno deve fare il suo ed un giudice non può, quasi avesse la bacchetta magica, trasformare il matrimonio in alcunché di altro se questo altro (un nuovo istituto matrimoniale? Un patto di convivenza con tutti i suoi diritti e doveri? altro ancora per ora ignoto?) non è stato configurato dal legislatore.  



Questa è una prima lezione che va tratta dalla sentenza. Politica e giurisdizione devono accettare di essere reciprocamente dipendenti, senza divaricazioni e prevaricazioni, con piena coscienza ciascuno del proprio ruolo sociale e della propria legittimazione. Non vi è dubbio infatti che il Parlamento possa regolamentare giuridicamente relazioni affettive diverse dal matrimonio, conferendo ai soggetti coinvolti in tale relazione uno specifico stato giuridico, uno status; la presente sentenza, tuttavia, va nella direzione di trasformare una facoltà in vincolo, annullando pressoché completamente la libertà di scelta del Parlamento e, quindi, della politica. 

Tra l’altro, consentendo la permanenza nell’ordinamento di un “matrimonio” tra due persone che dichiarano di appartenere allo stesso sesso, di fatto e di diritto si introduce un’alterazione significativa negli elementi essenziali di quel matrimonio, che perde il carattere di istituto eterosessuale, che è invece una caratteristica essenziale del matrimonio nel nostro ordinamento giuridico. Sentenza inefficace, sì – come lamentano i ricorrenti – ma produttiva almeno di un effetto, quello di trasformare nel caso specifico,  e senza effetti generali (che invece sono tipici delle sentenze di incostituzionalità), un matrimonio eterosessuale in uno omosessuale. 

La seconda lezione, più radicale, riguarda la natura delle cose. Essa non è più normativa. Ciò che è normativo, almeno in certi settori, è la volontà libera dei soggetti coinvolti in relazioni, in vincoli, in istituzioni giuridiche. Quanto assoluta è questa volontà? Può essa estendersi all’infinito, senza che alcuno vi possa porre dei limiti? E, ancora, se limiti si possono apporre, quali? E in forza di quale razionalità?

Sono domande che, nell’attuale contesto culturale, è assai difficile porre; ancora più difficile è trovare risposte adeguate, che riconoscano la realtà sociale in trasformazione e nello stesso tempo possano aiutare ad identificare spazi di libertà non distruttivi. La legge, disancorata da esperienze concrete e socialmente condivise, almeno nel loro valore se non nella loro forma, non ha più la forza di essere un pedagogo, un indirizzo per la libertà del singolo. E, allora, è forse giunto il momento di cambiare pagina e di tornare ad interrogarsi se abbia senso costruire relazioni su mere basi giuridiche, senza che al di sotto vi sia il senso, condiviso, di una esperienza pienamente significativa per la coppia e per i frutti della stessa.