Negli ultimi giorni Papa Francesco appare scatenato. Lunedì da vescovo alla sua diocesi, quella di Roma, ne aveva per tutti, parroci, perpetue e segretarie, “ragazze della Caritas” e “ragazze della Catechesi”, eccellenze e padri assenti. Ha parlato con una franchezza sconosciuta negli ambienti ecclesiali, mischiando senso pastorale ed esperienza di confessionale e strada, ha meritato standing ovation e risate fragorose e ha mandato tutti a casa, contenti, nonostante un acquazzone con lampi e tuoni sul cupolone. Dovevate vederli, beghine e preti panzuti, catechisti e suore dalle vesti immacolate, correre sotto la pioggia, felici e galvanizzati dall’incontro con Francesco, il condottiero, che per un’ora e passa non aveva fatto altro che ridicolizzare certe manie e tic clericali parlando a braccio di una Chiesa Madre che deve riscoprire l’eterna giovinezza, la capacità di generare, la tenerezza e dolcezza dell’abbraccio, piuttosto che il rigore e le formalità di un’associazione sindacale.
Ed ecco che ieri torna sul tema, ancora una volta sotto il cielo minaccioso della capitale, in una piazza comunque gremita, nonostante le bizze stagionali. Bergoglio, all’ultima udienza generale, ha inaugurato un nuovo ciclo di catechesi, proprio dedicato alla Chiesa. O meglio alla sua visione ecclesiale, sempre più chiara nella continua definizione che riflessioni e incontri gli consentono. Una Chiesa di tutti e per tutti: non fatta di preti, vescovi e beghe vaticane, ma famiglia che non ha niente di geneticamente modificato. Una realtà che non è nata in laboratorio ma fondata da Gesù, può contare su una lunga storia alle spalle.
Francesco ha parlato addirittura della preistoria, di Abramo, il patriarca che “lascia la sua terra e va…”, uno che nonostante gli acciacchi e la vecchiaia si mette in cammino dopo una chiamata inequivocabile. È colui che nell’antico Testamento mette insieme il popolo di Israele, rispondendo ad una vocazione. Abramo reagisce ad una iniziativa di Dio. Ecco la bellezza della storia sacra, il ritrovare puntuale come un orologio svizzero l’Onnipotente che fa capolino nelle pieghe delle vicende umane, prendendo l’iniziativa nonostante l’uomo e le sue miserie, rincorrendo i suoi figli scalmanati come una madre premurosa, bussando alle porte dei cuori, e dando indicazioni: fai questo, vai di là, mettiti in cammino…Un Dio che parla, che crea una relazione, che conversa, che crea il suo popolo e lo lascia libero di sbagliare, senza mai abbandonarlo, ponendo un’unica condizione: fidarsi di Lui.
Ed è il punto su cui è tornato con insistenza papa Francesco. Fidarsi di Dio, rispondere ad un amore che precede tutto e tutti. Dio è sempre primo. E non perché è Dio, ma perché ci ama. È l’amore ad attendere, ad aspettare, ad essere in anticipo.
Bergoglio ha usato una delle immagini più poetiche del vecchio Testamento: Dio come il fiore del mandorlo, che fiorisce per primo in primavera. La bellezza dell’albero dai boccioli bianchi per raccontare la Chiesa e la sua grandezza, la capacità di testimoniare un Dio che aspetta, persino i peccatori e i corrotti a patto che si convertano. In fondo la dinamica della fede è tutta in un gioco d’amore tra Dio e l’uomo.
Lo stesso Francesco avrà scandalizzato qualche benpensante ecclesiastico rivelando che Abramo non aveva libri di teologia ma solo un’immensa fiducia nel suo Signore. Si torna a quel sentimento di rassicurante abbandono che si prova nell’essere tra le mani del proprio Padre. O Madre, che è lo stesso. Quando sono le carezze e la tenerezza a prevalere sulle paure e le ritrosie. Quando è la pazienza la misura dell’amore. Quando finalmente pieni e compiuti si può innalzare il canto di benedizione. Benedetto Dio e benedetti i fratelli. “I cristiani sono gente che benedice” ha concluso il Papa ieri. Anche solo per una mattinata senza pioggia.