Ciro Esposito è morto dopo cinquanta giorni di agonia al Gemelli. Gli avevano sparato quando era andato all’Olimpico a vedere Napoli-Fiorentina, la finale di Coppa Italia. E io questo articolo non lo voglio scrivere perché davvero conviene il silenzio. È l’unica cosa che non puoi trovare su Google se digiti Ciro Esposito. Sono a bocca aperta davanti allo schermo vuoto e mi accorgo che i Ciro Esposito sono figli di qualcuno. Ciro, faccio compagnia a tua mamma il giorno di cinquanta giorni fa, faccio compagnia a tua mamma quando arriva al pronto soccorso. E al telefono non le hanno detto tutto. Però mamma appena entra lì dentro lo sa subito che aria tira. Non appena le viene incontro il dottore, che è gentile. Che la fa entrare anche se non si può. E le mettono in mano i vestiti del figlio. 

E poi vengono le domande che non le fanno, e sono quelle che fanno più male. Ma come lo hai educato? Ma quali valori gli hai dato? Ma da che famiglia viene? Ma che amicizie frequenta? Ma chi è veramente? I sociologi della domenica sportiva hanno bisogno delle domande perché vogliono dare le soluzioni, le risposte, le lezioni. Tantissime. 

Ma le madri dei Ciro Esposito non hanno bisogno di lezioni. Caro sociologo, noi madri e padri non meniamo più. Nessuna zoccolata, manco pantofolata o man rovescio sulle chiappe rosee dei nostri amati figli, ed è giusto così. E perché si ammazzano allo stadio non lo so. Mio figlio, se lo lasciavano vivere, tra un po’ di anni faceva la pennica sul divano davanti alla tv come faresti te se non fossi proprio tu a stare dentro l’apparecchio e a parlare. Però da giovane vai allo stadio perché tifi. Non è una malattia. Era tranquillo. Cosa c’è di più tranquillo di andare allo stadio? È una passione di quelle non del catechismo ma del cuore: e quindi del catechismo vero. Io non lo sapevo che però forse muori. Sono io che ve lo chiedo: quella violenza da dove viene? La televisione, internet, i media, e i social, non mi bastano come risposta. Non ho risposte. Ho moltissime domande però. Fa parte del calcio? fa parte della domenica? del girone di ritorno o di quello d’andata. Della Coppa del Mondo o della Coppa Italia? 

Cara mamma, lo sai che non riesco neanche a dire la parola “perdono”, quella che dal prete ti aspetti sempre? Mi sembra una parola ancora troppo grande, perdono per chi te l’ha ammazzato. E così mi metto in ginocchio accanto a te, a far crescere la pila delle domande.

Sembra che dopo il decesso di Ciro Esposito, le forze dell’ordine della capitale siano in allerta per l’eventuale arrivo di gruppi isolati di tifosi napoletani. Si temono raid e vendette nei confronti della tifoseria romanista. Sembra che un morto non basti. Che le bombe carta contro il pullman di famiglie napoletane, che Ciro voleva difendere, non bastino. Che un altro ragazzo, uomo, in galera per omicidio volontario, non basti.

Non basta. Nel caso dell’amore e della bellezza si capisce perché non basta mai e uno non ne voglia mai fare a meno, ma dell’odio e della stupidità? Perché non riusciamo a dire basta? Perché l’odio non basta? Perché la morte di Ciro Esposito oggi, la morte di Gabriele Sandri nel 2007, e altri morti e feriti negli anni, non bastano? Che c’è? Che c’avete? Dove andate − dove andiamo − noi e le nostre vite?

Martedì non ho seguito la partita dell’Italia ma ho capito che non andava, ho capito i momenti del gol degli avversari e delle decisioni contrarie ai nostri, dalle bestemmie a Dio e alla Madonna che venivano dalle finestre aperte per il caldo.

Vogliamo iniziare dalle nostre camerette, dai nostri divani, dalle nostre bocche, dai nostri cuori? Ci vogliamo dare una ripulita dentro prima di ripulire gli stadi? Retorica? Sì, forse. Se volete gli esperti, ce ne sono tanti. Io, forse, ho solo la retorica. Penso che se comincio da casa mia, alla domenica allo stadio ridiventerà festa. È retorica? e allora che me ne frega di essere retorico. Allora scrivo e penso e prego e auspico. Voglio che le cose cambino. Come? Non lo so. Lo facciamo insieme?