Il funerale non è una cerimonia che serve ai morti, il rito si celebra per i vivi: gli psicologi ci possono rivelare molti risvolti, le numerose implicazioni e le conseguenze che però riguardano i viventi, coloro che dicono addio al defunto, in modi diversi secondo le più diverse culture. Spesso gli antropologi studiano i rituali funebri per identificare un popolo, e certamente, da come un essere umano viene ultimamente accompagnato, si capisce la sua importanza sociale, economica, culturale; se la morte è uguale per tutti, ogni funerale è diverso. 

Ciro Esposito ieri ha avuto il suo funerale; assolutamente speciale.

Napoli, in particolare il quartiere di Scampia, era da tempi immemorabili che non vedeva una tale folla, una così grande partecipazione, corale, sentita. Pur essendoci molte autorità, queste non hanno contato più di tanto, i protagonisti sono stati tutti i suoi amici, la fidanzata, la madre in particolare, e soprattutto le diverse tifoserie riunitesi in piazza che addirittura per l’occasione è stata ribattezzata “piazza Ciro Esposito” con tanto di porta-insegna. La bara era letteralmente nascosta dalle sciarpe, dalle maglie, dai simboli delle tifoserie, portata a spalla sembrava galleggiare sul mare delle teste, ondose, piene di pensieri inquietanti. Numerosissimi gli appelli alla calma, alla pace, all’amore. Frasi molto belle sono state pronunciate alla fine del rito evangelico, breve funzione che prevede proprio le testimonianze-ricordo del caro perduto, come nei telefilm americani. Ma il cantante Nino D’Angelo e Genny a’carogna non sono certo dentro certi sceneggiati. Non è mancato neanche il twitter di Roberto Saviano che recita testualmente: “Dolore infinito. E vergogna. Abete si dimette per la sconfitta della nazionale e non per i fatti di Roma”. 

Vedendo i funerali di Ciro non ho potuto far a meno di pensare se anche quelli di Masaniello sono stati tali: la parola “eroe” è stata pronunciata molte volte, anche quella di “martire” o “difensore di innocenti”. Tali innocenti sono tifosi del Napoli, non vedove e orfani, né il popolo oppresso. Ma forse, per certi aspetti, è così. Si sentono i napoletani di Scampia un popolo oppresso? Davvero davanti a tanta sollevazione e emozione popolare possiamo solo vederci un tifoso ucciso, barbaramente, colpito alle spalle, intenzionalmente, durante una rissa… Sono pur sempre inquietanti tutti quei richiami alla calma, quasi si temessero vendette odiose, gli appelli alla pace e all’amore, significa che ce n’è davvero tanto bisogno, e infine il trasferimento del presunto colpevole in una struttura diversa, guardato a vista.

Ma se avessero ammazzato un poliziotto, giovane, sposato, magari con bambini piccoli, nello svolgimento del suo dovere cioè nel servizio di difesa dei cittadini che lui ha giurato di fare dedicando loro la vita, ci sarebbe stata tale partecipazione? O chiunque altro, fate voi…

Tutto questo dolore è per Ciro, solo per Ciro, o per quello che lui rappresenta? Se sì, cosa rappresenta? Il calcio? Il suo marciume, la sua sconfitta?

Cosa rappresenta il calcio davvero: sportività, lealtà, gioco, divertimento? Altro?

E perché, se il Calcio con la maiuscola ha fallito, hanno ricoperto la bara di Ciro con i suoi simboli?

Si può dire allora che il calcio, anzi, la fede calcistica (la squadra del cuore, i compagni ultrà, i cori, gli  amici, metteteci quello che volete) è questione di vita o di morte: per essa vale la pena di morire, vale la pena vivere. Entrambe affermazioni stupide, me ne assumo la responsabilità.

Chiunque viva esclusivamente per la sua squadra di calcio, ha un ben vivere misero; mi spiace, credo che il vero amore sia altro, abbia bisogno di altro, magari di una donna, innamorata anche lei. Dare la vita per la squadra, cioè mettere la propria vita a rischio, la propria e quella degli altri (non intendo riferirmi a Ciro, sia chiaro, ma a chi porta coltelli, mazze, bottiglie incendiarie, pistole, alle partite) è peggio che stupido, spero siate d’accordo.

Eppure succede. Perché? Verrebbe da dire: non hanno di meglio da fare? 

Non ci sono ideali migliori per cui combattere, metaforicamente parlando?

Non ci sono altri valori da amare, più profondi, più reali, più veri?

Anche se la Nazionale ha perso, non smettiamo di lavorare, di crescere i figli, di sperare in un futuro migliore; ma forse, ci sentiamo meno fieri di essere italiani? Ci sentiamo traditi?

Chiedo scusa per tutte queste domande, il dolore spesso provoca domande, fa affiorare dubbi che vanno oltre i sentimenti e le emozioni.

È in questo modo che il dolore smuove la ragione, chiede, anzi pretende a chi resta di essere consapevole, responsabile, cioè in grado (o almeno in cerca) di dare una risposta.

È come se Ciro ci guardasse in faccia e ci dicesse: io sono morto, ma tu, per cosa, per chi ancora vivi?