Tra i Santi che la Chiesa cattolica celebra il 7 giugno, è da ricordare la figura di Sant’Andronico di Perm, uno dei tanti martiri che caratterizzarono la prima fase della rivoluzione russa e il successivo consolidamento del regime sovietico. L’arcivescovo Andronico nacque con il nome di Vladimir Nikol’skij nel 1870, nella diocesi di Jaroslav. Dopo aver studiato presso il seminario di Jaroslav e all’Accademia teologica di Mosca, venne quindi ordinato sacerdote nel 1895. Il suo primo impegno fu quello in qualità di insegnante nel seminario missionario dell’Ossezia, detenuto per un intero anno, mentre nel 1897 fu inviato in qualità di missionario in Giappone. Nel 1906 fu chiamato a rivestire l’incarico di vescovo ausiliario della diocesi di Kioto, per poi essere richiamato in patria due anni dopo, al fine di dirigere la diocesi di Tichvin. Trasferito a Omsk, nel cuore della Siberia, nel corso del 1913, l’anno successivo raggiunse Perm dove la sua vita sarebbe stata presto troncata nel pieno della persecuzione operata dai comunisti. Il prologo alla vicenda fu una lettera pastorale inviata dall’arcivescovo Andronico ai fedeli della sua diocesi, nella quale denunciava l’inizio di una persecuzione su larga scala contro la Chiesa. Nella stessa lettera, chiese a tutti i fedeli di costituire gruppi di preghiera e comunità in grado di dare sollievo ai più deboli, impedendo che la paura li portasse ai margini della Chiesa stessa. Una preoccupazione che del resto lo stesso Andronico aveva espresso ancora prima che iniziasse la lotta da parte comunista, culminata nella chiusura di monasteri e chiese e nel fermo di molti religiosi. Il 29 aprile del 1918 toccò anche a lui la stessa sorte già capitata a molti confratelli, con una prima perquisizione che era il preannuncio di quanto stava per succedere. La sua risposta all’atto arbitrario, consegnata tramite una lettera indirizzata al Comitato esecutivo del Partito comunista di Perm, una energica protesta non solo per quanto successo a lui, ma anche contro l’incarcerazione arbitraria dei sacerdoti, scatenò una campagna da parte della stampa avversa. Una risposta violenta che arrivò a chiedere il suo arresto e alla quale alcuni fedeli reagirono offrendosi di aiutarlo a riparare in un luogo più sicuro. Lo stesso Andronico non volle però sottrarsi al suo destino rimanendo a Perm per lottare insieme alla sua comunità di fedeli. In questo quadro ormai esacerbato, il 9 maggio si tenne la tradizionale processione che si trasformò in una sorta di protesta di massa contro la repressione scatenata dalle forze comuniste, con una ulteriore escalation degli avvenimenti.
Il 14 maggio, infatti, le autorità comuniste imposero ad Andronico di presentarsi al fine di scagionarsi dalle accuse che erano state elevate contro di lui, scatenando le proteste dei cattolici, pronti a circondare la residenza arcivescovile per impedirgli di recarsi negli uffici governativi. Un tentativo di ricomposizione portò alla stesura di una lettera da parte comunista, con una risposta di Andronico, a fronte della quale le autorità si dichiararono soddisfatte del chiarimento. Si trattava però solo di un diversivo, come dimostrò l’irruzione delle guardie rosse nella cattedrale, avvenuta nella notte del 17 giugno. Andronico e altri religiosi, arrestati, furono portati a Motovelichi per la fucilazione, ma questo atto fu inaspettatamente sospeso dal presidente del comitato dei deputati operai, Mjasnikov. Il tutto mentre a Motovelichi saliva sempre più alta la tensione dopo l’arrivo sul posto di numerosi fedeli, determinati a liberare gli arrestati. La notte tra il 18 e il 19 giugno, ancora una volta le guardie rosse si attivarono per dare vita ad una lunga serie di arresti, seguita dal ritorno a Perm di Andronico, La richiesta fatta dalle autorità era quella di ritirare una sua precedente disposizione che sanciva la fine delle celebrazioni ogni volta che si verificava l’arresto di un sacerdote. Una richiesta rimasta però inevasa. Il silenzio assordante di Andronico venne rotto soltanto da una dichiarazione che suonava come una vera e propria sfida, nella quale dichiarava di considerarsi irrimediabilmente nemico delle autorità, tanto da affermare che se non fosse stato vescovo, non avrebbe esitato ad assumere su di sé il peccato di fare impiccare i suoi avversari. La sua dichiarazione pose quindi fine ad ogni esitazione da parte comunista. Portato nei boschi di Motovelichi, fu costretto a scavare la fossa, prima di poter pregare per un’ultima volta. Negli attimi successivi, la scarica di pallottole del plotone di esecuzione pose quindi fine alla sua vita terrena.