Il caso del rifiuto di sottoporsi a tracheostomia, da parte di una malata di Sla del Policlinico Agostino Gemelli di Roma, ha riaperto una ferita mai del tutto sanata dopo il caso Welby, nel 2006. Anche qui, come allora, si pone al centro la questione del confine che debba avere, se ne esiste uno, la volontà del paziente riguardo ai trattamenti salvavita. La questione del “dissenso informato” si può intrecciare infatti con il rifiuto dell’accanimento terapeutico e con la richiesta di eutanasia, rendendo estremamente difficile per l’opinione pubblica distinguere le varie fattispecie.
L’interpretazione pro bono ritiene che chiedere la non somministrazione o la sospensione della ventilazione meccanica per un malato di Sla non costituisca una richiesta di eutanasia, ma semplicemente un rifiuto di trattamento “sproporzionato”. L’interpretazione più decisa considera invece la richiesta di sospensione di questo trattamento un’eutanasia vera e propria, in quanto motivata dal rifiuto della vita a certe condizioni, ovvero dal giudicare la vita precaria, sofferente e senza autonomia del malato di Sla in fase avanzata come non degna di essere vissuta. In questo senso, la valutazione morale dell’atto di sospensione coinciderà con la valutazione morale che si dà all’eutanasia tout court.
Per comprendere più a fondo i termini di tale delicata questione conviene innanzitutto riflettere sul concetto di proporzione: si deve tenere conto prevalentemente dei fattori psicologici soggettivi o della condizione clinica specifica? L’anestesista Corrado Manni, che operava proprio al Policlinico Gemelli, aveva elaborato nel 1996 una definizione davvero calzante di accanimento terapeutico, secondo la quale si tratta di un trattamento di documentata inefficacia, a cui si aggiunge una particolare gravosità per il paziente, che rende il trattamento medesimo chiaramente sproporzionato rispetto agli obiettivi della condizione specifica. In una simile prospettiva, l’accanimento o sproporzione non coincide con ogni trattamento che il paziente rifiuti, ma con una valutazione clinica, anche alla luce della risposta soggettiva del paziente.
Ciò non si discosta molto da quanto precisato da Massimo Antonelli, direttore del Centro di rianimazione e terapia intensiva del Gemelli, intervistato sul caso dal Sir: se in un malato di Sla la ventilazione non risultasse più sufficiente, ma anzi complicasse ulteriormente la situazione del malato, si potrebbe emettere un giudizio di sproporzione e dunque desistere dal trattamento. Ma, precisa, “si tratta di casi estremi”. Ordinariamente, in effetti, la ventilazione meccanica nei malati di Sla è un trattamento indicato, che interviene ben prima dello stadio terminale di malattia, mantenendo la vita senza prolungare inutilmente l’agonia, anzi agevolando la funzione respiratoria compromessa e dunque offrendo un indiscutibile beneficio al paziente.
Sgomberato il campo dalla confusione con l’accanimento terapeutico, resta il problema del rifiuto di trattamento da parte del paziente, con intento suicidario o meno. Possiamo impedire ad un paziente di dissentire da un’ipotesi di trattamento? È evidente che questa possibilità non si dà al medico, in quanto la libertà attuale del malato – che rifiuta una cura – diventa un limite invalicabile all’azione del medico, anche qualora tale cura rappresenti oggettivamente il miglior bene del paziente. Il medico avrà il dovere di informare correttamente e anche di persuadere il malato, ma non lo potrà ultimamente costringere. In questo senso, il rifiuto previo di effettuare la tracheostomia per attivare la ventilazione meccanica da parte di un malato – come parrebbe nel caso romano – non potrà che essere atteso, anche se non andrà rubricato sotto la categoria del rifiuto di accanimento terapeutico, ma sotto quella appunto del rifiuto di terapia o dissenso informato.
Diverso è il caso di un paziente che sia già sottoposto ad un trattamento salvavita come la respirazione artificiale, in cui non si riscontrino gli elementi clinici della sproporzione e in cui l’interruzione del trattamento, effettuata da un medico, abbia come risultato principale la morte del paziente. Qui l’etica professionale imporrebbe di non cooperare, per non eseguire un atto dal carattere fondamentalmente eutanasico. Non si vede infatti quale differenza sostanziale vi sia fra la richiesta di un farmaco letale per ottenere la morte e il richiedere – allo stesso scopo – la sospensione di un trattamento necessario alla sopravvivenza.
E il ruolo e la responsabilità del medico nella morte del paziente avrebbero qui un peso morale decisivo.