Nella liturgia domenicale di ieri una delle letture era la discesa dello Spirito Santo dal cielo narrata negli Atti degli Apostoli il giorno di Pentecoste. È stato il quadro spirituale di riferimento, che si fa speranza politica, della preghiera comune per la Pace di papa Francesco, presente il patriarca Bartolomeo di Costantinopoli, e dei presidenti Shimon Peres e Mahmoud Abbas, per una Pentecoste del dialogo tra israeliani e palestinesi. Per una discesa nei cuori dei loro popoli, e dei loro leader, dello Spirito del Dio della Pace, dove magari si meraviglino – dopo decenni di contrasti sanguinosi e di una pace sempre mancata – udirsi parlare ciascuno nella propria lingua natia, capendosi; come si meravigliarono le genti diverse che udivano gli Apostoli nel miracolo di Pentecoste.
Il riferimento alla Pentecoste era per altro esplicito nel Regina Coeli della mattina, con la Chiesa che se viva “deve sorprendere”. E ieri, in effetti, ha sorpreso, e voluto sorprendere, nell’abbraccio con cui Francesco ha accolto Peres e Abbas, e che ha preparato l’abbraccio tra i due leader; qualcosa di più di una stretta di mano a un tavolo, negoziato, già esso stesso, di trattative.
Sia chiaro: da ieri non è che le cose siano più facili in Terra Santa, sarebbe ingenuo pensarlo. E a chiusura dell’incontro Francesco ha voluto ricordarlo, e qui è stato “politico”: il difficile è fare la pace, per la quale “ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra”. Perché bisogna fidarsi, “dire sì all’incontro e no alle ostilità; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza”. Perché, quando si chiede a Dio di nutrire il “suo” popolo, di proteggerlo dalla paura, di tenerlo lontano dal male e dagli aggressori iniqui, come nella bella invocazione della Pace della Comunità musulmana (“nutri il tuo popolo che ha fame, e proteggilo dalla paura…”), bisogna sapere che agli occhi del Dio Unico il “suo” popolo non è solo il “mio” popolo, che gli si rivolge in un Tu fiducioso, ma anche l’altro popolo che allo stesso Tu, con speranza e timore, chiede le stesse umanissime cose.
Perché a quel Tu, chi può resistere se si considerano le colpe, come dice il Salmo 130 letto dalla Comunità Ebraica? È questo il tema del coraggio che l’incontro di ieri ha messo sul tavolo della politica in Terra Santa. È stato notato che il testo cristiano era il più impegnativo dei tre nella richiesta di perdono, utilizzando i passaggi della “confessione di peccato” per le colpe storiche dei credenti in Cristo compiuta da Giovanni Paolo II in San Pietro il 12 marzo 2000, e aggiungendovi un richiamo specifico alle responsabilità dei cristiani nelle vicende storiche della Terra Santa. E che gli ebrei e i musulmani hanno fatto richieste di perdono più generali.
E si comprende. Il coinvolgimento diretto nel conflitto, la sfiducia reciproca, stentano a far abbassare la guardia. Ma il punto davanti al Dio della Pace è passare dal chiedere perdono a Lui del male che si è compiuto, al chiederlo a quelli a cui lo hai fatto, fidandoti che nel suo nome ti venga restituito il perdono. Come questo auspicio spirituale possa farsi azione politica concreta di pacificazione e di pace, è il lavoro e il compito di una politica che abbia quel più di coraggio che da decenni in Terra Santa serve per la pace.
Non è la prima volta che in Vaticano leader religiosi di diverse fedi si riuniscono e pregano. Era già accaduto durante il Giubileo del 2000, ma avevano pregato in luoghi separati. Ieri lo hanno fatto insieme. E un altro passo avanti. Un piccolo ulivo di pace è stato piantato. Se da domani comincerà a crescere nella ragionevolezza di una politica della buona volontà, che abbia il coraggio di dire ai propri popoli che altro non c’è per essi che la pace e il rispetto reciproco, la Chiesa di Francesco avrà sorpreso anche una politica incapace da troppo tempo in Medio Oriente di uscire dal suo disincanto.