Ieri sulla prima pagina di Repubblica campeggiava il terzo colloquio di Eugenio Scalfari con Papa Francesco. Il giornalista – non credente dichiarato – ha riassunto i contenuti dell’incontro col Pontefice in un articolo definito, dalla Sala Stampa Vaticana, un pezzo non riportante “con fedeltà e certezza il pensiero preciso dell’interlocutore”.
Devo dire che la cosa mi ha parecchio consolato. Non per i concetti esposti dal Papa nel resoconto del fondatore di Repubblica, bensì per il semplice fatto che perfino Scalfari, alfiere di una ragione scevra da dogmatismi, non riesca a sottrarsi alla tentazione di rielaborare quello che ascolta all’interno del proprio schema culturale. È difficile, infatti, stare di fronte alle cose per quello che sono e la mente di ognuno si adopera all’inverosimile per non intaccare il nocciolo duro di quello che già sappiamo e che abbiamo capito. In questo senso Scalfari ci mostra, senza tante elucubrazioni, il vero selfie dell’Europa: un continente chiuso, con un pensiero finito, incapace di farsi spostare dalla realtà.
È questa la malattia intellettuale che denunciava a ogni piè sospinto Benedetto XVI, mettendo in evidenza l’irrilevanza della realtà per la ragione dell’uomo europeo, un uomo divenuto incapace a considerare l’esperienza come il vero punto di partenza e di verifica del pensiero: senza esperienza, infatti, rimane solo l’ideologia e tutto deve essere manipolato per soddisfare i parametri della ragione, che poi non sono altro che l’eco del mio personale punto di vista.
Ma che cosa determina questa fragilità del pensiero? Nella chiacchierata con Scalfari Papa Francesco affronta due aspetti di cocente attualità che completano la preoccupazione ratzingeriana: il tema della pedofilia e quello dei rapporti con la mafia. In entrambi i casi il Vicario di Pietro mette da parte la sua proverbiale solarità per impugnare il bastone. Per lui, infatti, mafia e pedofilia sembrano due facce della stessa medaglia: chi ha smarrito il senso del proprio bisogno umano rimane ostaggio del proprio istinto e della propria brama di potere, diventando incapace di giudicare e di prendere consapevolezza del proprio male.
Bergoglio aveva già affrontato tutto questo in un piccolo dialogo sulla corruzione: il Papa argentino, in quel testo, aveva fatto notare come il vero pericolo per la Chiesa e per la società non venga dai peccatori, ma dai corrotti. Il corrotto è intimamente convinto, in una parte di sé, che il suo bene consista nel raggiungimento di un certo obiettivo cui tutti sono sacrificabili. Il corrotto, insomma, ha una parte di sé che non sente più le proprie domande, che è anestetizzata dalla propria bramosia. Questa parte, col passare del tempo, benché possa essere dissimulata da atteggiamenti più cordiali e onesti, prende il sopravvento sulla propria intimità e diventa la modalità “normale” di relazionarsi con le persone.
Sorgono così strutture di corruzione capaci di elaborare mentalità e comportamenti criminosi che finiscono per diventare normali. La corruzione, quindi, prima di essere un problema sociale, è un problema di natura personale: l’uomo corrotto non si preoccupa di capire, bensì di non perdere potere e monopolio sugli altri. Questo lo rende chiuso, prigioniero delle proprie strategie e dei propri obiettivi, incapace di aprire la ragione alla realtà che ha davanti. Curare la corruzione dello spirito, quindi, significa prendersi cura della fragilità della ragione perché solo un cuore che non ha nulla da temere può essere libero e lieto davanti al Mistero.
In forza di questa libertà il Papa non ha paura di sfidarci tutti ad abbandonare quegli atteggiamenti che alimentano la corruzione del cuore, ossia la mondanità, l’individualismo e la mancanza di una prospettiva grande e piena per la propria vita. Francesco, pertanto, non propone a Scalfari un sistema morale semplice da accettare per il laico non credente, ma pone in modo netto il punto fondamentale della questione: ma tu, come la metti col tuo cuore? Che cosa stai cercando? Fuori da queste due domande il giornalista Scalfari appare come un vecchio signore alla ricerca di scoop.
Eppure, se fosse attento a ciò che egli stesso scrive, capirebbe subito come una posizione del genere non regga davanti alla vita. Infatti il buon fondatore di Repubblica chiude il proprio resoconto con l’emozione per la carezza del Papa. Quasi che anche lui volesse dire che di questo ha bisogno: non di avere un Papa come piace a lui, ma un uomo che lo sappia guardare. Esattamente come Cristo duemila anni fa guardava tutti, come Lui ogni giorno guarda me: con uno sguardo che è capace di liberarmi da tutte le mie trappole per restituirmi a me stesso. Dopo tutto, è questo l’augurio che il Papa fa anche ai pedofili e ai mafiosi: di scoprire tutto il male che ognuno di noi − con i propri gesti − è capace di fare. Questa consapevolezza è davvero il prodromo della responsabilità, il primo tornante nel grande viaggio della conversione.
Francamente non so se questo il fondatore di Repubblica lo ha colto, so solo che − pur in una certo autocompiacimento − anche il grande Eugenio, quando ci scrive del Papa, sembra davvero un bambino. Un bambino che forse deve avere semplicemente il coraggio di guardare la realtà per quello che è. Senza la pretesa di capire, ma con l’umiltà di chi − ogni mattina − chiede a Dio di essere purificato. È di questo che mafiosi e pedofili hanno bisogno: Qualcuno che li liberi dalla corruzione del cuore. Quella stessa corruzione che minaccia anche me e che solo Cristo può davvero vincere.