Nel momento in cui viviamo, la problematica di fondo, che è anche la causa dell’aumento del contenzioso in materia, è la rottura della cosiddetta “alleanza terapeutica”, che definisce il legame fiduciario tra il malato e il medico.

In tal senso, deve salutarsi con assoluto favore la riforma della sanità approvata nelle scorse settimane nel Regno Unito, che prevede l’obbligo per i medici di dotarsi di sistemi di comunicazione elettronica con i propri pazienti, segnatamente mediante l’utilizzo delle tecnologie di Skype per visitare i pazienti a distanza.



Questo intento si colloca nella direzione di avvicinare il paziente al medico, con notevoli opportunità sia per il miglioramento della sua salute sia più in generale del rapporto di fiducia con il curante.

Tuttavia, a fronte delle opportunità non mancano, come sempre accade, i rischi: nuovi problemi giuridici si affacciano, e devono essere valutati con attenzione nell’attesa che simili interventi vengano adottati anche dal legislatore italiano.



Si considerino, innanzitutto, quelli  legati all’accesso della documentazione sanitaria, che tramite le nuove tecnologie può risultare notevolmente agevolato, ma che deve trovare un necessario equilibrio con le norme sulla riservatezza dei dati.

La normativa italiana sulla privacy (D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196) riguarda l’E-health in vari aspetti. L’art. 15 del Codice privacy regola la responsabilità del gestore di dati sensibili (nel caso di dati sanitari, si tratta di dati c.d. “supersensibili”), e rinvia all’art. 2050 c.c., ossia applica il regime di responsabilità oggettiva previsto per gli esercenti attività “pericolose”, con ciò esponendo il gestore del sistema di collegamento remoto a notevoli rischi (per un approfondimento si rinvia a www.dimt.it).



Occorre poi verificare se il collegamento remoto è compatibile con l’adempimento degli obblighi verso l’assistito consistenti nella trasmissione della lettera informativa sui trattamenti. Ulteriori e forse più gravi problemi si pongono in relazione al consenso informato dei pazienti: nelle prestazioni a distanza, il problema riguarda la necessità o meno di ripetere il consenso per ogni collegamento, e l’opportunità di specificare i rischi che si corrono (tra tutti, i rischi connessi alla mancanza del contatto fisico e dello sguardo clinico del medico, l’impossibilità di una visita completa e di un intervento immediato in caso di urgenza).

Sarebbe auspicabile elaborare modelli di informative e di raccolta del consenso uniformi sul piano nazionale, in quanto le prestazioni a distanza si possono svolgere anche in Regioni differenti – e in una prospettiva pan-europea, anche in Stati differenti, per cui si dovrebbe sviluppare una “coscienza” europea sulla telemedicina con regole e comportamenti uniformi.

Ancora, occorre approntare specifici meccanismi assicurativi per la perdita, l’alterazione o la manomissione dei dati, e più in generale per i guasti tecnici, che un sistema di comunicazione informatica altamente evoluta necessariamente comportano. Questo andrebbe peraltro ad aggravare i bilanci sanitari regionali – costi ampiamente compensati, è da dire, con il risparmio che la telemedicina comporta, ad esempio, sullo spostamento dei pazienti ovvero dei medici.

Lo sviluppo di rapporti medici a distanza pone, più a monte, innanzi all’alternativa se continuare ad usare gli schemi e gli strumenti giuridici di prima, tramite la fictio iuris per la quale i rapporti in tele-medicina avrebbero lo stesso valore dei rapporti in “diretta”; ovvero introdurre definitivamente una disciplina ad hoc per la sanità digitale.

Se, come sembra, il quadro normativo italiano si presenta sul punto assolutamente inidoneo a preparare l’avvento della medicina elettronica, deve auspicarsi che l’intervento del legislatore in materia (sinora frammentario e impreciso), si collochi ad un livello di organicità sufficiente a definire compiutamente la disciplina di queste nuove frontiere della tutela del diritto alla salute.

Alberto Gambino e Vittorio Occorsio