La mamma si chiama Donatella, il padre Fabrizio e lui per l’appunto Simone Scuffet, diciotto anni compiuti a maggio e un viso sufficientemente brufoloso come si conviene a un adolescente. Cosa c’è dunque di strano o anomalo in questo ragazzo per cui ne hanno parlato tutti i giornali, il web si rimpalla il suo nome? Ebbene, manco fosse emulo di Celestino V, a lui si deve il Gran Rifiuto:



“L’Atletico Madrid può aspettare, siamo contenti così – ha dichiarato suo padre -. Vagheggi, il suo procuratore, ci ha relazionato sull’offerta proveniente dalla Spagna e abbiamo deciso di comune accordo con Simone di far saltare tutto”. In aggiunta poi la precisazione, pare della mamma stavolta, che suo figlio sta frequentando Ragioneria, l’anno prossimo affronterà la maturità, meglio diplomarsi, prima. Poi si vedrà.



Con queste due frasette sono stati liquidati due dei mostri sacri dei nostri giorni: il Calcio, quello dell’Atletico Madrid, il club vincitore della Liga spagnola, e i Soldi, mica sciocchezze, ben 4,5 milioni di euro per un contratto quinquennale. La squadra con cui gioca il giovane portiere, l’Udinese, aveva in mano un accordo da più di dieci milioni, e non sono bazzecole, di questi tempi. Ma Simone si accontenterà di 300mila euro l’anno, per stare nella sua città, andare a scuola e maturare: resta sotto il sole dei suoi cari, degli amici, dei compagni di squadra, perché si speri arrivi a un “meglio” per la sua vita.



Tanto di cappello, verrebbe da dire, o, che coraggio, o ancora, un’occasione così potrebbe capitare una sola volta nella vita, cogli la mela dall’albero… e via andare, i commenti si sprecano. Non si sa bene se restare ammirati da una decisione tanto controcorrente o invece delusi, per l’atteggiamento forse pusillanime, eccessivamente protettivo della sua famiglia. Protettivo anche il fatto che lui, Simone, non ha parlato, bensì il suo procuratore e i suoi: ci sia stata un’invasione di campo?

Intanto si può dire che resta in Italia un grande talento, una vera giovane promessa, che lo fa a quanto pare non perché allettato da una migliore occasione economica e lavorativa, ma perché i suoi valori, i suoi genitori, lo hanno tenuto stretto. Non trattenuto fallosamente per la maglia mentre era in area (è un portiere però, scusate) di “rigore” dei suoi, ma proprio tenuto come in un abbraccio, amoroso, di cura. 

Non sarebbe bello che succedesse così davvero a tutti? Che la smettessero di fuggire i nostri migliori ragazzi, che sono il tesoro maggiore che possediamo (un genitore sa bene cos’è il suo tesoro, sa come proteggerlo, sa quando è pronto) ed è significativo come questo sia accaduto non per un “intervento legislativo” ma per un gesto amoroso della sua famiglia? Non sarebbe bello allora poter mettere tutte le famiglie in grado di aiutare tutti i ragazzi a decidere il meglio per loro, il tempo e il luogo giusti? Ripartire dai “vivai” si sentiva dire dopo il rientro mesto dal Brasile della Nazionale: ebbene, chi chiede i vivai non sono i grandi dirigenti, sono i ragazzi stessi, li ascoltiamo per favore?

D’altro canto invece si potrebbe muovere la grande obiezione: quei genitori troppo conservatori, hanno fatto perdere al figlio la più grande occasione della vita; siamo sinceri, tutti lo pensano. È un treno in corsa, salta su, con quella cifra in banca puoi fare quello che vuoi. Il fatto è che forse lui non sa ancora quello che vuole. O, magari, vista la rivelazione del talento, lo intuisce, la sua vita glielo ha rivelato, ma ne vuole essere il padrone, non subirlo, deciderlo e trattenerlo per le briglie, il suo sogno, che non sfumi ma che diventi un cavallo vincente. Magari restando in volo radente, ché se si invola non si cade da troppo in alto. Questa è forse pusillanimità? Chi non risica non rosica.

Devo dire che ammiro questi genitori e li considero coraggiosissimi: so bene quanta fermezza costi un “no”, quanto può essere liberatorio un “sì”.

Credo soprattutto però che il merito vada a Simone, abbastanza intelligente da non farsi plagiare, ma non dalle ragioni dei genitori, bensì dalle lusinghe dei due suddetti mostri sacri, che di sacro non hanno proprio niente, anzi. Il ragazzo è stato ben educato, soprattutto a usare la testa e quindi la misura del suo bene. Il bene più prezioso, la sua vita, oserei dire il suo cuore.

La passione, anche quella migliore, sana, creativa, talentuosa, non potrà mai essere sinonimo del cuore. Si deve distinguere, ciò che fai e il motivo per cui lo fai, quello che ti viene bene e che ti piace, dal tuo bene, dalla tua vera compiutezza. Bellissimo quando le due cose si avvicinano fino a coincidere, ma è pericolosissimo confonderle, scambiarle di posto. Non sei felice perché sei bravo, non sei migliore perché il migliore.

Sono concetti difficili da spiegare, in effetti non lo si può fare, soprattutto a un bambino; ma ai genitori spetta la dimostrazione di questo in ogni giorno che Dio mette nel mondo. Non ami tuo figlio di più quando è più bravo, sei contento se prende un bel voto a scuola, ma non per questo lo ami diversamente; non sei contento se fa quello che vuoi tu ma quando vedi che lui scopre il lato migliore di sé, cioè il suo talento, la sua bravura, anche se magari non lo avresti mai detto: è sempre così, siamo sinceri. La prova è quando si ammalano: allora, nella loro fragilità e nel pericolo di perderli, scopriamo quanto di loro è davvero importante per noi: tutto, difetti compresi. 

L’importante è che vivano e siano consapevoli di essere amati. E che l’amore, con le sue ragioni, è il motore che muove tutto il resto. Tutto il resto è dato in più.