È una storia d’amore, non di un aborto mancato. Le foto di Walter Joshua Fretz, nato a diciannove settimane dal concepimento e purtroppo morto dopo pochi minuti, stanno facendo il giro del mondo. Walter Joshua è rimasto in vita abbastanza da essere preso in braccio dai suoi genitori e dalle sorelline. Il suo piccolo cuore ha battuto il tempo sufficiente per dire al mondo che era vivo.
Sua madre ha deciso di divulgare quelle immagini per non dimenticarlo. Io ho un blog e ho riflettuto un paio di giorni prima di pubblicarle. Non mi identifico con i gruppi pro life che mostrano resti di bimbi spappolati per convincere che l’aborto è una mostruosità, e quando vedo le foto dei miei fratelli cristiani crocefissi in Siria, io non ce la faccio. Non ho lo stomaco. Come abbasso istintivamente gli occhi quando guardo immagini di torturati dei campi dei nazisti o dei gulag. È giusto che ci sia qualcuno, l’Onu, il Vaticano a constatare le cose orribili, ma io sono dell’idea che bastino loro. Poi ho deciso di pubblicare le foto del bimbo, non solo per la questione dell’inizio vita o perché mostra quanto sia difficile andare contro il debole quando le conseguenze dell’atto cattivo sono immediatamente visibili, ma perché mi sono accorto che le mani che hanno raccolto Walter non mi hanno scioccato, mi hanno chiamato.
Io non avrei scattato quelle foto e rispetto le madri che non avrebbero mostrato alla sorellina la vita di pochi minuti del fratellino. Però conosco tante mamme con aborti spontanei che si sarebbero comportate come la mamma di Walter. Quei figli persi per loro erano già amati e soffrivano di non poterli vedere e di non poterli toccare. Avevano quei figli nella mente, nel cuore, nella pancia. Ma li avrebbero voluti anche negli occhi. Volevano poggiare le labbra su di loro, stringerli e carezzarli. Perché il dolore va vissuto. La vita, seppure piccolissima e fragilissima, va vissuta. Vissuta di pelle e di respiro. Non basta portarla dentro, offrirla, pregarla. Non basta perché se non sono con lui, vicino a lui, non è completo.
Quel bambino tra le braccia della sorellina nella foto ha quello a cui ha diritto: l’amore di chi lo ama. Per qualche minuto è stato vivo. Tra quattro mesi lo avrebbero fotografato e stretto sorelle, madre, padre, nonne, amiche e amici. Avrebbe avuto l’album delle foto, quelli con la cornicetta argentata e la cicogna con il fiocco azzurro, e le didascalie sotto ogni foto. Scritte con la penna bella e la calligrafia più elegante che si può. Oggi, grazie al web, lo facciamo tutti. La mamma ci ha messo un istante a capirlo. Io un paio di giorni. Che non era la storia di un aborto mancato ma di una vita vissuta nell’amore. Quelle sono le foto di un bimbo appena nato e ci parlano di vita. Piccolissima vita. Specialissima vita.
Io ero insicuro se pubblicare o no le foto perché avevo sentito il bisogno di alzare il tiro. Filosofeggiare. Analizzare. Teorizzare. Davanti ad una foto così, ho sentito il bisogno di chiedermi cosa c’è o no di etico nella comunicazione, soprattutto se si tratta di comunicare un argomento sensibile. Ma lui è Walter e non è un argomento sensibile. È Walter con la sua nascita frettolosa e con una vita passata tutta tra le braccia di chi lo ama. Con la sua morte tra le mani di chi lo attendeva tantissimo, Walter ci parla non di aborti mancati, di eutanasia, di diritti a morire, a vivere, di privacy. No, Walter ci parla di Walter. E dice che è appena nato, che quella è la sua famiglia, che lo aspettavano, ma lui li hai preceduti, ha accorciato i tempi ed è arrivato di corsa. E la sua mamma ha voluto un album di famiglia un po’ speciale, fatto di web. E la rete, mostrando la realtà, ha risposto bene: ha fatto vedere che l’amore ha un suo modo solenne e semplice di difendersi. E i social mi hanno aiutato a conoscerlo. Sono ancora capace di guardare un uomo e vedere che è solo un uomo?