A Lauria, in provincia di Potenza, in un bagno per signore di un centro commerciale, è stato abbandonato (e forse partorito) un neonato dai lineamenti europei. I medici hanno visto il bambino in ospedale e sta bene. Il cordone ombelicale è stato tagliato e medicato come si deve. Sono in corso le indagini dei carabinieri per ritrovare la donna che lo ha partorito.



“La donna che lo ha partorito” la chiamano, ma vuol dire “mamma”. Però se scrivo mamma non è più una notizia ma diventa una storia. E le storie fanno male, ti entrano dentro, ti fanno pensare. E se pensi non giri pagina, non clicchi sulla freccetta ma rimani lì a sentire. A sentire il dolore di tante donne, di tanti bimbi, di tanti “tutti” che siamo noi. 



Non posso fare molto. Scrivo e provo a immaginare. Lo hai partorito in bagno? “Dare la vita” pensavo fosse solo con il corredino in valigia, la nonna trepidante fuori, il marito accanto, e la stanzetta pronta. Invece “dare la vita” è anche dare la vita così: in un posto che “tanto lo trovano subito”, che “ho il tempo di allontanarmi, non mi trovano e lo danno subito in adozione”. Dare la vita è anche notti insonni, giorni da delirio pieni di “come è potuto succedere” e poi di mesi da “lo posso abortire ma non voglio”. Secondo me non lo voleva abortire. Il bambino è in buono stato di salute e io dico che la mamma gli ha dato la vita. La vita possibile, quella che poteva. 



Non è la storia di ognuno di noi? Vivere la vita possibile? Forse ci vorrebbe un articolo con un’analisi sociologica, psicologica e culturale per capire perché e fare in modo che non accada più. Ma ora è accaduto e, visto che il bimbo sta bene, io penso a lei. Se nemmeno una storia così ci fa fermare a pensare, è inutile che andiamo in vacanza. È inutile che tentiamo di riposare perché si riposano le persone, ma se una storia così non mi fa pensare allora mi devo chiedere chi sono diventato, se sono ancora una persona o no. E se i carabinieri troveranno il filmato, io penserò a te e al tuo bambino e al filmino dei miei amici e dei loro bimbi in clinica. 

Non ce la faccio a pensare che sei snaturata. Sei forte. Sei stata mamma nove mesi e lo sarai per sempre. Il tuo dolore lo conosci tu e te lo sei portato via con te. Il tuo bambino ce lo hai lasciato e ora sarà tra le braccia di qualcuno che te lo terrà bene. Che gli vorrà bene. Sei forte. Lo hai lasciato in un bagno per signore e quindi sapevi che sarebbe entrata una signora.

Un’altra come te, una donna, si sarebbe fermata e lo avrebbe preso, subito. E così è stato. “Si cerca la madre”. Si cerca sempre la madre in questi casi. Non scrivono mai “dov’è il padre?” perché in una storia così è scontato che il maschio è qualcuno che non c’è. Una donna è sempre sola davanti alle decisioni importanti. A quelle definitive. È così anche se lui c’è, figurati se non c’è. 

Io non ce la faccio a scandalizzarmi. Se è vero che i centri commerciali hanno sostituito le piazze dei paesi e che sono i nuovi luoghi sociali di ritrovo, lasciarlo lì vuol dire che hai lasciato il tuo maschietto a noi. Che lo volevi dare a tutti. Se non può essere mio, se non posso tenerlo, tenetelo voi. Non lo so. Certe notizie o le facciamo diventare storie, e le facciamo diventare umane e ce le viviamo dentro, o faremo solo gli scandalizzati dalle mani nei capelli. Se invece diventa una storia, alla prossima telefonata dell’amica in crisi, che ha paura, non le dirò qualche stupidaggine. La andrò a trovare a casa.