Meriam Yahia Ibrahim Isha, la cristiana sudanese condannata a morte a Khartoum (Sudan) dai terroristi del Boko Haram per apostasia (e poi liberata), è arrivata a Roma – su un volo della presidenza del Consiglio – con i due figli (Maya, la figlia più piccola, è nata lo scorso 27 maggio mentre la madre era in carcere) e il marito Daniel Wani. La donna (27 anni) nata da padre musulmano era stata cresciuta nella fede cristiana dopo l’abbandono del padre, ma per la Sharia anche la religione viene tramandata, di diritto, dalla linea paterna. Pur essendosi sposata con un cristiano, venne accusata non solo di essersi convertita ad altra religione, ma anche di aver commesso adulterio in quanto il matrimonio tra fedi diverse non può essere riconosciuto. Ma in cosa consistere l’apostasia? Rappresenta, in sintesi, l’abbandono volontario della propria religione. Sebbene la Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani riconosce l’abbandono della propria religione come un diritto umano legalmente protetto dal Patto internazionale sui diritti civili e politici in alcune nazioni l’apostasia è punita, talvolta è prevista anche la pena di morte. Nell’Islam l’apostasia ( detta anche ridda) non è ammessa: l’applicazione di una delle pene-hadd (la parola hadd sta a indicare il “limite, confine” imposto da Allah all’operato umano) previste dalla Shari’a. L’apostata viene sanzionato con la pena capitale se l’atto non sia avvenuto per sfuggire alla morte o a un pericolo grave per sé o per i propri cari e se sia stato compiuto con la precisa intenzione di abbandonare la fede.