Caro direttore,
Papa Francesco ha definito “giorno di lutto” il 28 luglio, giorno in cui si ricorda l’inizio della Prima Guerra Mondiale. Quest’anno l’anniversario è più significativo perché sono passati cent’anni dal giorno in cui si spararono i primi colpi tra austriaci e serbi con le conseguenze che nessuno si aspettava ma che ogni guerra potenzialmente porta con sé: perché la guerra distrugge, la guerra genera divisioni che poi a fatica si possono sanare.
Il Papa ha fatto un accorato e commovente appello a fermare le armi, a smettere di affrontare le questioni che pur esistono con la forza delle armi e davanti agli occhi dei signori della guerra che hanno messo le sofferenze e le uccisioni di tanti bambini, vittime innocenti di una ingiustizia che permane.
L’intervento di Papa Francesco all’Angelus di domenica 27 luglio è stato di una impetuosità e di una forza da ricordare, perché ha portato qualcosa di nuovo dentro il rito cui ormai la nostra cultura ci sta abituando e che ha come esito quello di assuefarsi alle tragedie. Il metodo che anche in questi giorni ci troviamo a subire in tutte le forme possibili da quelle cartacee a quelle multimediali è l’analisi, questa è la modalità dominante con cui si ricorda lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, analisi delle cause e delle conseguenze, e ben sofisticate così che oggi se non si riesce a sapere tutto comunque si arriva ad una conoscenza ampia e approfondita. Il Papa dentro questa modalità dominante di ricordare ha introdotto un elemento nuovo, e lo ha fatto con il coraggio del giudizio. Questo è ciò che ci ha insegnato il Santo Padre, che non si può conoscere se ci si ferma all’analisi, pur giusta analisi: si deve arrivare ad un punto di giudizio, e questa è stata la provocazione del Papa in due direzioni.
La prima è stata nel riprendere il giudizio di Benedetto XV, la guerra come inutile strage da cui è scaturita una pace fragile.
La guerra è il fallimento dell’umano, ci possono essere cause plausibili, ma le cause della guerra non portano alla guerra: per arrivarci bisogna rinunciare all’umano, bisogna decidere di non usare la ragione. E’ una sfida interessante quella di Papa Bergoglio, una sfida a non fermarsi all’analisi quando si guarda ai fatti della storia, perché spiegano ciò che è successo ma non lo fanno conoscere. Per questo il giudizio di Papa Bergoglio non è l’esito di una somma di cause, ma la capacità di cogliere il punto da cui nasce la guerra e che bisogna snidare, è l’uomo che non crede alla pace. Infatti il giudizio è il bisogno che l’uomo ha della pace, per questo è un giorno di lutto il 28 luglio, perché si è deciso di andare contro l’umano.
La seconda provocazione è stata di gridare perché oggi si crei la pace, perché oggi si faccia tacere il rumore delle armi. La pace oggi, questo è il giudizio del Papa, “tutto si perde con la guerra, nulla si perde con la pace, mai più la guerra”, questo è quello che dice il Pontefice nell’anniversario della Prima Guerra Mondiale. Non si ferma ad analizzare il passato e nemmeno si ferma a giudicarlo, ma urge perché oggi si faccia la pace e la si faccia nelle tre aree di crisi più importanti: quella mediorientale, quella irakena e quella ucraina.
Il Papa ci ha insegnato a guardare un fatto giudicando e per arrivare al giudizio ci vuole quello che il Papa ha usato per giudicare la Prima Guerra Mondiale, il cuore e il suo bisogno di pace. E’ per questo che non si può oggi ricordare le trincee senza abbracciare il bisogno di pace di israeliani e palestinesi, irakeni e ucraini. E’ l’esigenza di pace il punto di leva del giudizio sulla Prima Guerra Mondiale, l’esigenza di pace che porta nel cuore un giovane israeliano come un giovane palestinese, un giovane ucraino come un giovane russo, un irakeno cristiano come un irakeno musulmano.