Il 3 di luglio, in occasione dell’assemblea pubblica di Farmindustria, il Ministro Lorenzin aveva annunciato per la fine del mese il recepimento della direttiva europea e l’aggiornamento delle linee guida riguardanti la fecondazione artificiale eterologa, facendo seguito così alla sentenza della Corte Costituzionale che, oltre tre mesi fa, dichiarava l’illegittimità del divieto di tale pratica. In effetti il 25 luglio la commissione ad hoc costituita dal Ministro ha chiuso i lavori consegnando un documento che riconfigura in modo sostanziale lo svolgimento della procreazione assistita in Italia. Della delicatezza della situazione si è mostrata pienamente consapevole il Ministro che, nella stessa occasione, osservava come la priorità su questo tema non può essere la celerità, bensì l’accuratezza e il bene di pazienti e nascituri. In altre parole, “i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito” (L. 40/2004, art. 1).
Da più parti si è affermato che la sentenza della corte sarebbe applicabile senza ulteriori modifiche alla normativa; tuttavia tale eventualità non sembra tenere in adeguata considerazione la complessità e le criticità che il ricorso alle forme eterologhe di fecondazione implica. La legge 40 effettivamente prevede alcuni elementi di regolamentazione per i casi di fecondazione eterologa eventualmente occorsi in violazione alla legge: l’art. 9 infatti vieta il disconoscimento di paternità e l’anonimato della madre in questi casi (commi 1 e 2), oltre a escludere relazione giuridica parentale, diritti e obblighi del fornitore di seme nei confronti del nato (comma 3). Molti altri aspetti restano però deregolamentati, fra cui la questione del compenso o rimborso per i fornitori, le procedure relative alla sicurezza sanitaria dei gameti, la tracciabilità del profilo genetico dei fornitori e insieme il loro diritto all’anonimato, il numero di fecondazioni consentito per ogni fornitore, le possibili ricadute eugenetiche.
Questi problemi sono stati appunto oggetto dell’analisi della commissione che, in base alle notizie fin qui divulgate, opta per un profilo mediamente “restrittivo” nella gestione della pratica: non più di 10 cicli di fecondazione per ogni fornitore, onde evitare i rischi di consanguineità (realistico in particolare per i piccoli centri); screening dei fornitori di gameti ed età massima di 35 anni per le donne e di 45 per gli uomini, al fine di garantire una maggiore efficacia delle cellule utilizzate nel processo; età potenzialmente fertile per la donna ricevente, con l’esclusione quindi della maternità tardiva post menopausa; rimborso o indennizzo per i fornitori; anonimato dei fornitori ma loro tracciabilità, in modo da consentire l’individuazione tempestiva nel caso si manifestino anomalie genetiche nei concepiti o nel caso venga sviluppata nel tempo una patologia che richiede la ricostruzione della storia sanitaria.
Insomma, si profila il tentativo di arginare le conseguenze più gravi della fecondazione eterologa – verosimilmente anche attraverso modifiche alla legge stessa – , registrando al contempo l’impossibilità di conservare il divieto della tecnica, come vorrebbe l’art. 4, c. 3. Non sarà affatto semplice, perché notoriamente nei campi più campi spinosi agli sforzi di inquadramento seguono nuove fattispecie, casi particolari, complicanze. Ma ciò che non sarà davvero possibile arginare saranno le conseguenze psicologiche e relazionali di tale procedura, che porta con sé una riscrittura culturale della maternità e della paternità, come osservavo nel mio Etica della procreazione umana (IF Press, 2012).
Se negli Stati Uniti è stato vietato il disconoscimento di paternità nei casi di eterologa, è perché ciò accadeva con significativa frequenza all’interno della popolazione maschile, segno di una maggiore estraneità dei padri sociali ma non biologici nei confronti dei loro bambini. Se la difficoltà di inserirsi nello stretto circuito mamma-figlio nel periodo postnatale non è assente tra i padri biologici, la “famiglia eterologa” sembra avere in questo senso una maggiore fragilità psicologica. Questo “rigetto” può esplodere anche successivamente, nell’impegno educativo e nel confronto con la personalità in crescita dei figli, spesso indecifrabile in fase adolescenziale. La asimmetria fra i genitori (sociali e biologici), in altre parole, mette maggiormente a repentaglio l’equilibrio relazionale familiare.
La condizione paritaria della “doppia eterologa” – ovvero quella in cui sia seme che ovuli vengono da fornitori esterni e spesso equiparata alle adozioni postnatali – non semplifica il quadro: dalla ricerca sulle adozioni sappiamo che un bambino senza un passato abbisogna di molto aiuto e attenzione, in quanto sviluppa più facilmente sensi di insicurezza e di sfiducia in se stesso, e ciò vale per colui che è stato abbandonato più che per l’orfano. Mentre quest’ultimo può compiere un cammino di “elaborazione del lutto”, il primo sa che da qualche parte colui o colei che lo ha generato vive indipendentemente da lui, esiste forse nell’indifferenza al suo destino, e forse con altri figli e figlie che gli somigliano. Non a caso l’istituto dell’adozione nasce primariamente dalla solidarietà verso una fragilità già data, ovvero dalla condizione di solitudine di un bambino esistente, e non dal mero desiderio di paternità e di maternità, per quanto legittimo in sé. Mentre l’adozione cerca di porre rimedio a una tale fragilità, l’eterologa la programma a tavolino. Anche dalla parte dei nati, dunque, l’eterologa è foriera di problemi.
C’è da scommettere che ognuno di questi rischi verrà giudicato trascurabile da buona parte della cultura dominante. La ragione è semplice: l’unico punto di vista che viene preso in considerazione è quello del desiderio soggettivo e attuale di genitorialità da parte di una coppia, forse a breve anche di singoli. Siamo di fronte alle inevitabili conseguenze della convinzione che ogni desiderio diventi per se stesso un diritto e che la società debba quindi garantirlo, anche a detrimento della dignità umana.