Nelle ultime settimane le prese di posizione a favore dei cristiani perseguitati si sono moltiplicate. Oltre alla veglia organizzata da Giuliano Ferrara a Roma sotto la sede del Foglio e ad un inequivocabile editoriale in prima pagina sul Corriere di Galli della Loggia, perfino la Massoneria, il Grande Oriente d’Italia – per bocca di Claudio Bonvecchio – ha lanciato un appello affinché l’Occidente si mobiliti per porre termine alla carneficina dei seguaci di Cristo dilagante in tutto il mondo arabo.
Singole vicende inoltre – come quella della giovane Meriam – restituiscono l’esatta portata del dramma che centinaia di persone stanno subendo a causa della loro fede proprio in questo stesso istante. Eppure, nonostante tutto ciò, né l’Occidente concretamente si muove, né questi appelli sembrano cogliere il punto centrale del problema. Infatti, per Galli della Loggia, noi europei facciamo sempre più fatica a sentirci cristiani e, quindi, a percepire significativo per ognuno di noi il dramma di tanti nostri fratelli al di là del Mediterraneo.
L’Europa, prosegue l’intellettuale, considera la religiosità monoteista come qualcosa di primitivo o di intimistico, vivendo invece con vera paura la forza e la capacità finanziaria del mondo islamico. Bonvecchio, di contro, iscrive il suo appello nell’esigenza che nessun Stato discrimini gli esseri umani per alcun motivo, soprattutto per il proprio credo religioso. Il risultato è che la persecuzione dei cristiani viene descritta come un fatto umanitario o politico, una questione di “salvaguardia della specie” o di odio per le istanze ideologiche di cui essi si fanno portatori. Su quest’ultima linea si colloca anche l’Elefantino che, come sempre, non riesce ad andare oltre l’aspetto culturale del fenomeno.
In realtà c’è molto di più: il cristianesimo, infatti, sorge nella storia come la negazione del potere del mondo in favore della Signoria di Cristo. Per un cristiano il centro del proprio affetto è una Presenza che lo investe a tal punto da diventare il motore delle proprie azioni e delle proprie scelte. Quando uno incontra Cristo non desidera altro che reincontrarLo e seguirLo dentro i meandri della storia, ovunque Egli voglia dirigersi.
La persecuzione, pertanto, è connaturale al cristianesimo in forza della sua pretesa profetica di essere oltre il potere e le forme di questo mondo, al servizio di un potere che è Amore e che non determina il valore del singolo in base a connotati fisici, morali o giuridici, bensì solo in forza del suo stesso essere voluto e desiderato da un “Altro”. Nessuna società potrà mai, quindi, sopportare un cristiano. Egli, con gli occhi purificati dal Battesimo, non potrà smettere neppure un istante di rendersi conto del limite di ogni politica, di ogni civiltà, di ogni sabato sera e di ogni amore che nasce sotto il cielo di questo pianeta. Essere generati alla fede significa, pertanto, essere generati all’inquietudine, alla percezione del dolore, del dramma, della finitudine e del tormento del genere umano.
Una presenza che sente questo, una presenza che si strugge per il nulla che incombe su ogni bacio, su ogni carezza e su ogni idea degli uomini, è una presenza insopportabile, una presenza da eliminare e distruggere. L’A Diogneto, apologia scritta agli albori dell’epoca patristica, definisce i cristiani come l’anima del mondo, come la propria coscienza. I cristiani impediscono al mondo di far finta che tutto vada bene, ne alimentano l’insonnia e la memoria, restituendo ad ogni uomo il bisogno intimo e inestirpabile di amare e di essere amato davvero e per sempre. Capite perché gli appelli degli intellettuali di casa nostra non sortiranno mai alcun effetto? Per il semplice motivo che coloro che dovrebbero muoversi a difesa dei cristiani stanno, in questo stesso momento, perseguitandoli con le loro leggi e le loro “evoluzioni democratiche”.
Appartiene quindi al sogno perverso di uno stato cristiano l’ideale che i cristiani non siano perseguitati, ma onorati e promossi. L’imperatore Teodosio, circa millesettecento anni fa, ci fece questa cortesia, ma ad un prezzo altissimo: la connivenza e la collaborazione con la romanitas, il disperdersi della portata radicale e sovversiva della fede. Funzionò. Ma furono molti a lasciare le città e i villaggi per dar vita a quelle esperienze monastiche che divennero per tutto l’Oriente e l’Occidente un monito severo a non dimenticare la pretesa irriducibile che il rapporto con Cristo aveva introdotto nella loro vita.
I cristiani che restarono nella società ebbero certamente dalla loro “il calduccio” di uno Stato, la gioia di una patria, ma rischiarono di perdere la cosa più importante e più vera: lo stupore per ciò che ogni giorno Cristo opera di fronte agli occhi di chi crede in Lui. Furono i Monaci a salvare la nostra civiltà, furono loro a non smettere di combattere contro i nemici che li perseguitavano – e che sempre perseguiteranno un cristiano – nel proprio cuore, restituendo a tutti coloro che riposavano sotto le insegne del potere l’esatta misura di quale fosse la portata della sfida che Cristo aveva scatenato nel mondo.
Per questo gli appelli e le riflessioni degli intellettuali di casa nostra contro la persecuzione dei cristiani sono al contempo utili ed equivoci: se infatti, da un lato, essi spronano opportunamente gli Stati a trovare nella libertà il fondamento del loro potere, dall’altro surrettiziamente nascondono l’idea che alla fine anche noi cristiani potremmo diventare dei “loro”, ossia fedeli di una religione dell’umanità e di un’Europa dei valori dove il progetto culturale e politico sostituisce la fantasia e il programma dell’unico Signore che un battezzato può realmente seguire. Quel Signore che ci porta dove vuole Lui, alle periferie del mondo, dentro il dramma del nostro cuore. Ad ogni prezzo, anche a quello di una morte apparente o di una tragica persecuzione.