Mi arriva la notizia della morte di Giorgio Faletti mentre sono in macchina. Radio con canzone anni 80. E lui mi faceva ridere da giovane. Giovane negli anni 80, appunto. E invece di spegnere la radio per un minuto di silenzio, sono politically incorrect e alzo il volume. È morto uno che mi faceva ridere da giovane, e ridere è una cosa seria: grazie Giorgio. Soprattutto ora che non sono più giovane, ci tengo ancora di più a ridere. Mi sembra una cosa da non dimenticare: ridere.
Andiamo avanti. È morto Faletti. Ieri su Il Venerdì di Repubblica c’era un articolo di un esperto che diceva che mentre noi postiamo le nostre vacanze, i nostri Mi piace gratis, Zuckerberg, come si scrive?, si arricchisce. Stavolta però i suoi stramiliardi con Fb, Zuck se li è guadagnati o comunque non me ne frega niente perché grazie a facebook mi sto arricchendo anch’io per una frase che Faletti ha postato proprio lì prima di morire. Una frase del suo ultimo libro. E tutti sono sul suo profilo e cliccano: sarà virtuale, sarà falsamente gratis, saranno mille cose che non vedo e non so, ma quello che vedo e leggo e so, mi piace. Sì, l’ultimo post di Faletti mi piace. È doloroso e cita una frase del suo libro Tre Atti e Due Tempi: “A volte immaginare la verità è molto peggio che sapere una brutta verità. La certezza può essere dolore. L’incertezza è pura agonia”. Il social network è stato subito preso d’assalto da chi gli ha voluto dare l’ultimo saluto.
Qualcuno lo ha già scritto che è un post che diventa la battuta finale di una vita? Ne ho altre di frasi scontate ma non mi va di essere originale davanti alla morte di una persona. Faletti mi ha fatto ridere quando non avevo alcun pensiero perché avevo vent’anni o poco più, e ora che se ne è andato questa sua frase mi dice che siamo cresciuti entrambi. Solo ad una certa età puoi scrivere quello che ha scritto sulla verità e il dolore. Solo ad una certa età puoi leggerla e capirla. A vent’anni anni mi facevi ridere, ora mi fai pensare, bravo Giorgio. Perché capisco che anche lui, per scrivere così, ha avuto delle notti in cui verso le due si scatenano “i pensieri circolari”, quelli che ti tornano in faccia come un cazzotto, o come l’elastico lunghissimo, quello che da piccolo tiravi, e ti sfuggiva la fine e ti frustava la faccia con un dolore incredibile. Faletti ha passato notti così, ha sentito il dolore della verità immaginata, “la verità elastico”. E sapeva quanto è liberante che arrivi l’ora del mattino, quando puoi telefonare e sentire se è vero che quel dolore che stanotte era a letto con te, sta aspettando proprio te.
Al dolore, se è vero, se c’è, se è come un muro, gli puoi urlare contro, lo puoi prendere a cazzotti, puoi prenderlo a picconate con l’aiuto di un amico; magari puoi anche appoggiarci una scala e andare oltre, o metterci le spalle contro e piangere con le ginocchia che si piegano. Ma ci vuole un dolore, un muro, non l’ombra del dolore o del muro. L’ombra di un muro, la paura di un dolore che non vedi, come la scavalchi, come l’abbatti, come ti ci appoggi? Ha ragione Giorgio: è un’agonia aspettare la botta. Preferisco i lividi, qualcuno me li accarezzerà. L’unica cosa buona del dolore, è che arrivi tu, che arriva qualcuno. Ecco perché i Mi piace crescono. Perché sotto quel muro ci siamo tutti. E se siamo in tanti fa meno paura.