Caro direttore,
l’episodio avvenuto a Oppido Mamertina la scorsa settimana, con l’inchino della statua di Maria alla casa del boss agli arresti domiciliari e la dura presa di posizione dell’Arma dei Carabinieri e del ministro dell’Interno, è solo l’ultimo di una serie di eventi che ci raccontano l’impegnativo fronte su cui molti Vescovi e sacerdoti del Sud Italia si stanno impegnando da molto tempo. 



Sicuramente la “scomunica verbale” dei malavitosi, pronunciata qualche settimana fa da Papa Francesco nella Piana di Sibari, ha sortito un grande effetto, al punto che – è notizia delle ultime ore – alcuni detenuti della sezione di alta sicurezza di un carcere molisano hanno esplicitamente rifiutato di partecipare alla Santa Messa in protesta alle parole del Pontefice. Eppure, nonostante il plauso dei media e la comune approvazione dell’opinione pubblica per queste prese di posizione della Chiesa, ci sono alcuni fattori che non vengono adeguatamente espressi o sottolineati, fattori decisivi per cogliere tutta la complessità delle vicende in questione e la loro pertinenza con la nostra vita.



Infatti, fattore numero uno, è molto grave che un ministro della Repubblica Italiana giudichi un atto di culto religioso. La fede cattolica, e la sua struttura ecclesiale, non sono al servizio – né a disposizione – della morale dello Stato. Uno Stato non può obbligare una Chiesa a modificare la sua prassi e la sua dottrina in conformità alle esigenze del potere: non può chiedere alla Chiesa cattolica di ordinare sacerdote una donna, non può pretendere che al matrimonio siano ammesse persone dello stesso sesso e – pertanto – non può neppure definire il percorso di una processione religiosa né, tanto meno, stabilire chi debba portare in spalla l’Arca del Santo o della Madonna. 



Tutto questo è incompatibile col criterio stesso di laicità e non deve essere sottovalutato. Benché il ministro abbia pienamente ragione, benché il suo intervento sia motivato da “istanze di ordine pubblico”, benché l’episodio di Oppido Mamertina sia vergognoso, non è ammissibile che l’autorità civile ingerisca moralmente in faccende che non rientrano nelle competenze proprie del suo servizio e che non violano nessuna delle leggi italiane. C’è bisogno, quindi, di un sano scatto di orgoglio e di autonomia da parte della Chiesa, uno scatto che le ragioni contingenti non possono limitare o far passare in secondo piano: la Chiesa è infatti indipendente dallo Stato, il legame tra di essi è determinato da accordi ben precisi e da un principio di “sana cooperatio” a beneficio della collettività. Il di più – come dice il Vangelo – viene dal maligno.

Domandiamoci però – fattore numero due – perché vicende come questa possano accadere. Alla radice di questi fatti c’è una fortissima collusione di certi settori del cattolicesimo con il potere, legale o illegale che sia. Se un cattolico concepisce lo Stato come il braccio secolare della dottrina della Chiesa, allora lo Stato ha tutti i diritti di dire e fare quello che vuole anche nell’ambito della pastorale ordinaria. Provocatoriamente ci si potrebbe chiedere: che ci faceva l’Arma dei Carabinieri alla Processione? Non bastavano due vigili per regolamentare il traffico attorno all’evento? 

Sono domande scomode queste, domande che mettono in discussione un intero sistema di pericolosa commistione tra apparati statali e forze ecclesiastiche. Tuttavia non si può di giorno chiedere allo Stato di promuovere la fede cattolica e poi, di notte, vietargli di proferire parola su una Processione. E d’altro canto non è possibile che “le cose di Dio” siano usate dalla malavita organizzata con il beneplacito di molti preti e di qualche vescovo: il potere infatti non è – e non sarà mai – l’espressione della Chiesa nella storia. La Chiesa non ha bisogno di potere, ma ha bisogno di libertà. 

In molte zone dell’Occidente l’avvenimento cristiano è stato ridotto a fattore culturale, un fattore che ha preso le forme delle tradizioni e dei costumi di quella zona finendo per perdere tutta la sua portata sovversiva e destabilizzante: Cristo è stato così ridotto a un’immagine – a un feticcio – alla mercé del potere e delle logiche di una determinata cultura. Ne emerge, paradossalmente, un ruolo marxista della religione, dove la fede sembra diventare una sovrastruttura dell’economia e un surrogato della mentalità dominante.

Infine – fattore numero tre – è interessante cercare di capire da dove provenga una simile attrattiva per il potere, lecito o illecito che sia. Certamente il fatto che “il potere” sia una delle prerogative di Dio determina fortemente il fascino che l’uomo prova per il suo esercizio. Tuttavia c’è qualcosa di più profondo che alberga in ognuno di noi e che ci porta a scendere a patti con prassi e mentalità che, in linea di principio, aborriamo. Si tratta della tentazione a ricercare ciò che compie e rende grande la vita in ciò che da sicurezza, controllo, assenza di preoccupazione. Avere potere – in famiglia come tra gli amici – ci risparmia un sacco di fatica, ma soprattutto ci risparmia il dramma di incontrare noi stessi, di domandarci che cosa realmente ci tenga in piedi, che cosa davvero può saziare la nostra fame e la nostra sete di bene. 

Al di fuori di questa posizione, per certi versi così elementare, la legalità rimane solo un valore morale che la Repubblica deve difendere. Mentre – invece – la legalità non è altro che l’esito di un cuore pulito o, come ama dire il Papa, “non corrotto” dall’ingordigia del possesso e del dominio. Facili illusioni che possono portarci molto in alto e molto oltre i nostri limiti ma che, quando si spengono, lasciano un tragico vuoto facendoci diventare preda del nuovo padrone di turno. 

Cristo è venuto sulla terra per liberare l’uomo, per liberarlo – nella sua intima natura – dal potere del male. Sta a noi, ogni giorno, scegliere se ci interessa di più il Suo amore o il nostro potere. È una scelta che si gioca dentro tutto, anche dentro una banalissima processione.