Dalla cronaca quotidiana spesso ci arrivano storie che – improvvisamente – ci aprono gli occhi. È il caso delle dichiarazioni rilasciate a un settimanale dalla moglie di Massimo Giuseppe Bossetti, fermato dagli inquirenti per l’omicidio della giovane Yara Gambirasio, in cui la donna sostiene di essere certa dell’innocenza del marito in nome della “banalità felice” della loro esistenza, una banalità per la quale, certamente, il sospettato – all’ora presunta dell’omicidio – doveva essere in casa. Come tutte le sere. E poi c’è un’altra storia che, da un’angolatura diversa, ci dice cose simili: un padre della Toscana che, durante le vacanze in provincia di Potenza, uccide la moglie e i suoi due figli – uno dei quali disabile – e poi si suicida. Fa impressione perché, solo pochi giorni prima, la figlia senza disabilità aveva postato su Facebook uno stato in cui descriveva la propria famiglia come un luogo alternativo, dove le persone sapevano amarsi sempre e comunque, a prescindere dalle decisioni e dalle strade intraprese.
Queste vicende, queste presunte normalità minacciate dalle ombre, ci interrogano e ci chiedono di capire che cosa può accadere nelle nostre famiglie, nella trama normale delle nostre vite. Perché, e questo è il punto, questi fatti – veri o presunti – accadono in contesti assolutamente normali e ordinari, contesti fino ad un attimo prima insospettabili, eppure pronti a trasformarsi in scenari inquietanti e tragici, al punto che – se uno è cosciente di ciò – si interroga se il prossimo non possa essere il mio vicino, il mio amico, il mio stesso figlio.
Forse la psicologia potrebbe offrirci molte spiegazioni per ognuno di questi singoli casi, forse la sociologia ci potrebbe aiutare a comprendere in che contesti determinate reazioni maturino, ma tutti sappiamo bene che niente può bastare a far tacere quell’inquietante interrogativo che si insinua nelle nostre menti e nei nostri cuori: “E se succedesse a me?”. Di fronte ad una domanda così bisogna andare alla radice del problema, fino a guardare in faccia che cosa è diventata – nel nostro mondo borghese postmoderno – la famiglia, che cosa sono diventate le relazioni. Tutto, direbbe Martin Buber, è stato oggettivato, reso un oggetto, e la nostra vita si presenta come una serie di oggetti – persone, animali o cose – da gestire, da sistemare, da mettere a posto. Ciò che è stato fatto fuori, perché spaventoso e destabilizzante, è una delle domande più radicali della filosofia, una delle domande più decisive per ogni uomo: “Che cos’è questa cosa che ho davanti a me? Che cos’è questa persona qui? Che cosa sono io?”.
È svanita, portata via dalle correnti di una modernità in cerca solo il manuale delle istruzioni per vivere, la domanda sull’essere, sul chi siamo noi e sul chi sono le persone che ho accanto. Il risultato è sorprendente: sappiamo tutto di chi ci circonda, anche a che ora uno va su Whatsapp o a che ora legge le chat di Messenger, ma non sappiamo chi sia. E, cosa ben peggiore, non sappiamo neppure chi siamo noi. La certezza di casa Bossetti è tutta giocata sulla convinzione intima di conoscere l’altro solo perché vive con me, la stessa convinzione che rende certa la ragazza che sta per essere uccisa riguardo all’affetto e al bene della sua famiglia. Il punto è – basterebbe essere onesti un istante per ammetterlo – che noi viviamo insieme, ci frequentiamo, ridiamo, ma non ci conosciamo.
Io so quello che tu fai, quello che sai, come ti comporti, cosa fare quando mi fai arrabbiare, ma credo che tutto finisca lì, che tu sia un oggetto perfettamente gestibile e, con questa convinzione, non mi accorgo neanche del male che fai, del male che ti faccio, del male stesso che ci facciamo. È questo il dramma ultimo delle famiglie moderne: esse sono così felici che hanno smesso di stupirsi l’uno dell’altro, che hanno smesso di essere curiosi l’uno del cuore dell’altro. 



Senza questo stupore, senza questa curiosità, tu – moglie mia, figlio mio – diventi qualcosa da mettere in ordine, da tenere a bada, da soddisfare, da gestire in modo tale che tu non possa disturbare la mia vita, quella che io conduco da me, quella dove tutto torna e dove tu – a volte – sei davvero di troppo. Già perché è questa la matrice ultima di tutte le cose che stiamo dicendo: la percezione di sé come “solo”, come “indipendente”, come “autonomo”, talmente impegnato a fare i conti con Dio e con il cristianesimo, da non rendersi conto che Dio abita sotto il tuo tetto, dorme accanto a te, e ti butta pure via la spazzatura. La disperazione sorge nell’esatto momento in cui, in questo sistema di solitudine, io non so più che fare, non so più come muovermi e la tua presenza, marito mio, diventa per me la principale sospettata della mia infelicità. 
In realtà sono semplicemente solo e non so neppure chi sono. Quando siamo piccoli le cose sono molto più semplici: è evidente che è un altro che ci dice chi siamo, al punto che il nostro stesso nome lo impariamo e non lo scegliamo, lo scopriamo e non lo decidiamo. Oggi pretendiamo di scegliere noi chi siamo, di decidere noi che cosa poter essere, e questo ci espone alla solitudine disperata che è l’anticamera vera di ogni incomunicabilità e, quindi, di ogni violenza. Quando non siamo più certi che, aprendo gli occhi, un Altro ci aspetti, diventiamo ostaggio di noi stessi, dei nostri successi, delle nostre performance, e l’Altro – chiunque esso sia – diviene per noi la pietra di inciampo, lo scandalo da eliminare, il bullone che non torna. E tutto diventa tragico, problematico, insopportabile. È da questo che Cristo è venuto a salvarci: da quell’eterna tentazione di voler camminare sulle acque per conto nostro, facendo a meno di Lui, facendo a meno dell’altro. Quella moglie e quel marito che, così come sono, ci ridicono ogni mattina che noi non siamo un caso, e neppure il prodotto delle nostre scelte. Noi siamo semplicemente un dono misterioso. Un dono in cui abita il bene e il male, un dono continuamente da scoprire e da incontrare, un dono che Questo Altro ha deciso – inaspettatamente – di amare.

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