Come un killer seriale esce allo scoperto improvvisamente ed in maniera micidiale seguendo logiche e tempi incomprensibili. Sulla sua origine si insinuano distorte verità: creato in laboratorio? Diffuso intenzionalmente? Niente di tutto questo. Come l’Aids si è nascosto per anni nelle foreste pluviali tropicali, forse ospite di inconsapevoli scimmie o pipistrelli giganti venduti nei mercati rurali come leccornie. Poi l’esplosione: i primi casi registrati nel 1976 e nel 1995 nell’allora Zaire, quindi Sudan, Uganda, Gabon, Congo, Sudafrica sino all’attuale epidemia in West Africa. Mille casi ufficiali (ma quanti saranno veramente?) con una mortalità poco meno del 60% (ma con punte del 90%). Guinea, Sierra Leone, Liberia ed infine Nigeria sono ora sotto assedio; il virus emorragico proveniente dai villaggi ha raggiunto per la prima volta le città dove è potenzialmente senza confini.
Ebola come l’Aids ha involontariamente rivelato alcuni aspetti contrastanti e drammatici della natura umana che richiamano secoli ritenuti ormai sepolti, quando le grandi epidemie scuotevano e decimavano la civile Europa. Quando la realtà sfugge di mano, quando il destino travolge l’ uomo la sua meschinità e la sua grandezza sono portate ai limiti estremi: tanta paura, ritrosia ed egoismo ma altrettanto coraggio ed abnegazione sino al sacrificio della propria vita.
La storia di queste epidemie offre vicende da conoscere. Nel 1995 a Kikwit l’epidemia, dal decorso fulminante e dal contagio quasi inevitabile, fece vittime soprattutto tra il personale sanitario, comprese sei eroiche suore bergamasche, che affrontarono il nemico a mani nude e morirono una dopo l’altra coscienti che dare la vita per il prossimo era l’estremo compimento della propria, follia della carità e logica incomprensibile al senso comune.
Nel 2000 in Uganda il virus esplose nel nord, nella cittadina di Gulu dove è situato l’ospedale missionario di Lachor, fondato dal brianzolo dottor Corti negli anni 60. Qui vennero portati in massa gli oltre 400 malati che nel giro di sei mesi vennero infettati: 173 di loro morirono. Fu l’unico ospedale dell’ Uganda ad accettare di curare questa malattia, allestendo anche un sofisticato laboratorio con ricercatori del Cdc di Atalanta. Dopo le prime morti tra gli infermieri molti di loro esitarono, ma alla fine una novantina di dipendenti rispose volontariamente all’appello “è la nostra vocazione cercare di salvare vite umane, non di fuggire!”
Il prezzo pagato fu molto alto: 17 di loro morirono, molti altri infettati la scamparono. Anche due medici persero la vita, uno fu Matthew Lukwiya, direttore dell’ospedale e medico eccezionale; intuì per primo che queste morti misteriose avevano a che fare con il virus emorragico Ebola e mobilitò il sistema sanitario. La sua fede, era cristiano protestante e padre di famiglia, ha segnato profondamente la vita del suo Paese sino a diventare eroe nazionale. Alle esequie di una suora aveva parlato della responsabilità dell’ amore: “Ciò comporta dei rischi, ma nel momento in cui agiamo con amore, il rischio non ha molta importanza. Se crediamo davvero che la nostra missione sia quella di salvare vite, allora dedichiamoci senza esitazioni!”
Anche fratel Elio Croce, missionario comboniano, fu coinvolto in questa drammatica avventura che poi raccontò nel libro Più forti di Ebola. Fece di tutto; vestito di una tuta da sbarco sulla luna accudì i pazienti, seppellì i cadaveri, ricoverò gli orfani, procurò farmaci e cibo, pregò per i malati ed i morti. Ha risposto sì con la sua vita alla sconvolgente domanda: “Può un uomo rischiare la vita per aiutare un suo fratello a soffrire ed a morire dignitosamente?” − non solo a salvarsi, ma anche a morire dignitosamente… Un’apparente sconfitta diventa vittoria.
In questa epidemia che ha coinvolto i quattro paesi dell’Africa occidentale molte tra le vittime sono coloro che hanno consapevolmente offerto assistenza ai malati, un missionario spagnolo ed una suora africana della congregazione San Giovanni di Dio hanno perso la loro vita mentre due sanitari americani sono ancora in terapia intensiva. Ma come loro quanti umili infermieri o semplicemente madri o padri, o fratelli hanno scelto con piena coscienza di non abbandonare chi soffre e di esporsi ad un rischio mortale.
Nessuno di noi li conoscerà mai, hanno vissuto apparentemente in angoli bui della storia, mai ne sentiremo parlare al telegiornale, eppure la loro vita ha reso più umano questo dramma. Ha svelato ancora una volta chi è l’uomo, capace di limiti meschini e di gratuità impensabile, spettacolo per il mondo. Ogni loro gesto di carità, ogni “bicchiere d’acqua dato ad uno di questi piccoli” ha valore eterno e dà frutto.