SEOUL – Francesco ha toccato il suolo asiatico. È il primo pontefice dopo 15 anni ad atterrare in estremo oriente. Ad attenderlo la presidente di un Paese tecnicamente ancora in guerra, diviso dall’altra metà del suo corpo. Il papa della pace, che da giorni incessantemente invoca riconciliazione e perdono per i tanti conflitti mediorientali, arriva a pochi chilometri dalla cortina di bambù, la linea che dal 1953 divide il nord dal sud della penisola asiatica, il governo comunista di Pyongyang da quello economicamente aggressivo e spregiudicato di Seoul. Viene ad incontrare i giovani asiatici ma anche a testimoniare una possibilità nuova di convivenza, nel ricordo di cristiani coraggiosi e fedeli, martiri di una fede cercata ed inseguita alla corte cinese nel XVII secolo.
Con orgoglio i coreani rivendicano il dna laico della propria Chiesa, un unicum nella storia dell’evangelizzazione. Furono infatti alcuni giovani studiosi, filosofi e astronomi, a rimanere folgorati da testi arrivati nel paese grazie all’infaticabile lavoro missionario dei padri gesuiti. Ma i fratelli di Ignazio, “vestiti come bonzi alla corte dell’imperatore”, in questo caso hanno poco merito. La potenza attrattiva fu tutta dei sacri testi intorno a cui si ritrovarono, nell’eremo del gran maestro Yi Byok, i primi seguaci coreani di Cristo.
Il cattolicesimo era per loro la “scienza del Cielo”, un movimento spirituale lontano sia dal buddismo che dal confucianesimo di importazione cinese, una via nuova, luminosa, affascinante e totalizzante. Persino il battesimo se lo andarono a prendere, di propria iniziativa. Il gran maestro inviò nel 1783 l’intellettuale preferito dal gruppo in Cina: Yi Seung-Houn si fece battezzare con il nome di Pietro, a Pechino, e dopo un anno fece ritorno in patria con un baule carico di oggetti sacri e libri, pronto a battezzare i fratelli nella nuova fede e ad andare, felice e contento, incontro al martirio. Esecuzione capitale nella prigione di Seosomoon di Seoul. Il primo perseguitato di una lunga schiera, uomini e donne riconosciuti eroici, pur nella loro stravagante e particolare testimonianza, dalla Chiesa.
Nessuna colonizzazione religiosa, nessuna imposizione esterna: quando i primi missionari francesi misero piede nel paese i cattolici erano già 5mila. Tra di loro neanche un prete. Ci sarebbe da riflettere su questa esperienza di chiesa senza clero, bagnata dal sangue di più di 10mila martiri in poco più di due secoli, ancora oggi dall’anima divisa, provata dalla persecuzione vissuta nel nord del paese. E Papa Francescco, a cui viene il mal di pancia alla sola parola clericalizzazione, nei suoi primi discorsi ha mostrato di apprezzare il “miracolo” coreano.
Dopo il breve passaggio nella base aerea di Seoul, catapultato dal dramma del nord iracheno sul banco delle tensioni asiatiche, ha trovato la forza e la lucidità per fornire, ancora volta, una chiave di interpretazione del presente. Prima nel salone dei ricevimenti della “Blue House”, palazzo presidenziale della quasi addomesticata tigre asiatica, poi nella sede della Conferenza episcopale coreana, davanti a 35 vescovi del Paese, ha chiesto di riflettere sul valore della pace, di perseguire la via della riconciliazione, di lottare per la stabilizzazione di un’area minacciata da troppi personalismi e da vecchie diffidenze. Ricordando sempre il dolore del passato e quello più recente.
Il sacrificio di Paul Yun Ji-Chung e dei suoi 123 compagni che beatificherà sabato 16 ma anche la sofferenza di chi non vede i propri cari da 66 anni, strappato alla propria terra da un confine segnato a matita: 10 milioni di persone costrette a lasciare un pezzetto di se stesse nel Nord. Non appendici affettive ma carne della propria carne. Madri che non hanno saputo più nulla dei figli, padri senza una famiglia, fratelli e sorelle separati, cugini allontanati dalla storia e non da beghe familiari, con l’unica prospettiva di vincere alla lotteria la possibilità di un abbraccio. Sì perché la grottesca soluzione per le riunificazioni familiari tra sud e nord del Paese è affidata al caso, alla fortuna, alla sorte come la si voglia chiamare, con tanto di sorteggio in televisione e la dea bendata a decidere della vita e del cuore delle persone. È l’unico modo scovato dai due governi per permettere incontri tra quei cittadini destinati dalla guerra a vivere separati.
Così il Papa che sull’aereo chiede 30 secondi di silenzio al carrozzone mediatico da spendere in preghiere per il collega dell’AP ucciso da una granata a Gaza, davanti ai coreani ribadisce la necessità di promuovere la cultura della riconciliazione e della solidarietà, di praticare una diplomazia che sia basata sul dialogo e l’ascolto, piuttosto che sulle dimostrazioni di forza, di cercare una pace che non sia “semplicemente assenza di guerra, ma opera di giustizia”. Nell’aria densa e pesante dell’estate coreana arriva il ciclone Francesco, il mondo sarà pure appeso a ciò che accade qualche fuso orario più in là, ma ascoltare questo testardo messaggero di Pace in Asia può essere utile.