SEOUL – L’incorreggibile Francesco lo ha fatto ancora. Ha preso i fogli in mano, quelli che aveva preso a leggere, disciplinatamente, in un inglese distorto dalla passione del comunicatore, e li ha buttati via, per lasciare spazio al cuore e all’amabile spontanietà. Gli oltre 60mila giovani arrivati da tutta l’Asia non aspettavano altro. Pronti a venirgli incontro, con un supplemento di pazienza e di attenzione, pur di assistere allo show dell’amore. Sia i fortunati stipati nel bianco tendone refrigerato che gli altri che arrostivano intorno al santuario di Solmoe, luogo prescelto per il VI incontro dei giovani del continente, hanno drizzato le orecchie. Sono abituati ad onorare gli anziani e persino gli antenati, non oserebbero mai contraddire apertamente un adulto e la “reverenzialità” la assumono con il biberon, ma di fronte a quello scarto, a quella mossa a sopresa da centravanti consumato non hanno potuto che mostrare apprezzamento.
Lasciamo stare che da questa parte del mondo può voler dire, alzare sopra le teste contemporaneamente centinaia di smartphone oppure far ondeggiare gadget dai colori imbarazzanti e dalle forme improbabili (oggi ho scoperto che l’oggetto del desiderio degli adolescenti cattolici asiatici è un quadrato giallo limone ripiegabile, ovviamente in magnifica plastica made in Korea, con funzione di salva sedere o pantaloni, opportunamente sagomato). Quello che conta è che lo hannno capito al volo. E dopo due giorni di tentativi falliti in comunicazione su banalità del tipo “dove si trova la toilet?” oppure “posso avere una forchetta?”, vi assicuro che già questo ha del miracoloso.
Francesco si è trovato davanti il futuro del continente, degli Stati e della Chiesa (dove può liberamente operare) in Asia ed è riuscito a farsi perdonare quello che lui stesso ha definito un “poor english”, comunicando in un misto fantasioso di lingue e gesti che incantava. Mi è venuto in mente il povero “capitano, mio capitano” del pur sofisticato e compianto Robin Williams. Quello recitava, lui incarna. E diventa non il pifferario magico dell’attimo fuggente, ma il cantore dell’eternità. Oggi, già ieri per me che scrivo (o altroieri non so, con i fusi orari ho perso il conto), parlava di felicità. Felicità che dura, quella dell’amore. E mentre mi gustavo lo spettacolo di lui che imbrigliava quei volti tondi, la marea di occhi e di cuori giovani, con la spericolata discesa nell’inglese dei brand e degli slogan occidentali, pensavo a che meraviglioso educatore lo Spirito ci ha regalato.
Poco prima, nella cornice di uno spettacolo dai ritmi e dai colori del levante, tre ragazzi, una cambogiana, un cinese di Hong Kong e una coreana, gli avevano raccontato le proprie vite e posto domande impegnative. Roba seria, non i quesiti preconfezionati di certe kermesse clericali. Dalla questione Cina alla dolorosa frattura tra le due Coree, dal martirio alla vocazione. Francesco, dapprima si era attenuto al testo, poi ha preteso, del resto l’ospite era lui ed è pure Pontefice, che il traduttore lo aiutasse a far capire bene due, tre cose.
Aveva preso appunti, bene bene, e voleva rispondere nel merito. Poteva diventare una cosa noiosissima, e invece, sebbene gli applausi scattassero con il ritardo corrispondente al tempo di traduzione, è stato un successo. Di più: un trionfo. Di bellezza e di Vangelo. Sarà perché è un uomo libero, o perché gli piace la spregiudicatezza, ma il modo in cui ha spazzato via i dubbi sul presunto conflitto tra vocazione e responsabilità familiari o la semplicità con cui ha assicurato che chiederà in Vaticano numi sui martiri coreani e il loro processo di beatificazione, affidando la questione ad un “buon uomo, Angelo” (credo proprio che si riferisse al Cardinale Amato) sono stati un meraviglioso spettacolo della fede.
Gesti, sorrisi, ammiccamenti, siparietti con il traduttore o chi gli reggeva il gioco, nella babele asiatica che è stato l’incontro di Solmoe è riuscito a comunicare l’essenziale, persino quando ha chiesto il silenzio necessario alla preghiera per la riunificazione della Corea. Unica terra e unica famiglia. Si è buttato a capofitto sulla questione che divide da oltre 60 anni la penisola asiatica, ferita aperta, dolore immutabile, costantemente alimentato da una dialettica di recriminazioni e offese. Individuando una via di fuga nella concretezza dell’incontro. Ha attinto la speranza da una storiella biblica di quelle che ci raccontavano all’asilo. Giuseppe e i suoi fratelli, i farabutti che il minore riconosce dal modo di parlare. Mi sono sorpresa a pensare “e se avesse ragione lui? Se in fondo non bastasse che puntare sul fatto che prima o poi si riconosceranno nella lingua comune? Non è forse vero che è più facile capirsi se si usano le stesse parole per chiedere scusa e perdono?”. La via del semplice, di chi osa invocare l’impossibile, mettendo tutto nella mani di un Altro. Un Padre buono che conosce miserie e limiti dei propri figli e che non se ne fa cruccio. Il padre della parabola del figliol prodigo che non si stanca di perdonare, che anzi ama di più chi è più lontano. Parole magnetiche per giovani tentati e distratti da troppi miti, ossessionati dal carrierismo, spaventati dalla prospettiva di un’esistenza costretta tra etica del lavoro e successo economico, priva di affetti e di spazi per l’anima.
In poco meno di 20 minuti, Francesco ha sciolto la rigidità orientale, fatta di inchini e sorrisi, che contamina anche i più giovani, trascinando tutti in un vortice di abbracci, lacrime e catene di mani. Alla fine sì è prestato all’ennesimo selfie con Giovanni, cinese di Hong Kong che si era avventurato sul terreno scivoloso dei rapporti con la Cina, ma che poi in fondo non voleva che uno scatto con il faccione di Bergoglio, e ha concluso la giornata tuffandosi tra due ali di giovani. Gridava in quel suo buffo inglese, “wake up”, “alzatevi”, l’incipit del tema della giornata della gioventù asiatica. Il resto recita “e risplendete”. Lui abbagliava.