La prima pagina più bella l’ha pubblicata The Korea Times. Il numero 124 composto dalle figurine dei martiri campeggiava sotto la testata. Bell’idea quella di ricordare al paese Paul Yun Ji-Chung e i suoi compagni che alla fine del XVIII secolo affrontarono la morte pur di non rinnegare Cristo. Ed è stata anche una scelta coraggiosa in una nazione dove non solo non si conosce la storia del cattolicesimo, ma addirittura sfuggono alcune categorie fondamentali. Lo stesso quotidiano, uno di quelli in lingua inglese, ha affidato all’esperto Do Je-Hae lo sforzo di spiegare dettagliatamente etimologia e significato del termine “beatification”, beatificazione, ai tanti coreani che ignorano la gerarchia dei santi e le modalità per scalare il Paradiso.
C’è da dire che il conservatore Chosun-Ilbo, foglio tra i più popolari tra i quotidiani coreani, con oltre due milioni di lettori al giorno, aveva però sfoggiato un inedito dono dello Spirito: pubblicando con qualche ora di anticipo la cifra di un milione di persone per la celebrazione-evento tenutasi solo in mattinata, nel cuore della capitale. Un fiume di fedeli infatti ieri ha attraversato Seoul. 800mila, per il direttore della sala stampa vaticana, un milione di persone per gli organizzatori e le forze dell’ordine, hanno guardato la grande porta di Gwanghwamun, simbolo della storia antica e contemporanea della Corea, cornice solenne al rito di beatificazione dei 124 martiri di fede cattolica. Nell’altare, incastonato nel grande monumento nazionale, papa Francesco ha reso omaggio a Paolo Yun Ji-Chung e ai suoi compagni. È la prima generazione dei cattolici coreani che finalmente sale agli onori degli altari, e si unisce alle schiere di perseguitati in odium fidei nel paese nei secoli successivi, già riconosciuti come modelli di santità dalla Chiesa.
La storia di Paolo e degli altri rientra nel “miracolo dell’evangelizzazione coreana” avvenuta attraverso laici e intellettuali che, caso unico nella storia della chiesa, scoprirono il Vangelo per curiosità e autentica ricerca della verità. Il Papa lo ha ricordato nella sua omelia in italiano, parlando della fede dei martiri e della bellezza e dignità della vocazione dei laici, paragonando quell’esperienza così tenace di fedeltà a Cristo ai tanti compromessi a cui spesso si cede nella vita, o al modo soft di abiurare al Vangelo, così in voga nelle nostre quotidianità troppo affollate, diluendo la radicalità della proposta cristiana in cambio di una fede fai da te molto accomodante.
Niente di più lontanto dall’idea di chiesa bergogliana, fatta di domande toste come “per cosa saremmo disposti a morire?”. Lo ha chiesto anche a quella schiera di ordinatissimi cattolici coreani, così bellini nella loro compostezza orientale, compenetrati nella solennità del rito, con le donne a capo coperto (magnifici i veli bianchi da parrocchia di provincia anni 50) e gli uomini rigidamente seduti, orgogliosi di onorare la memoria dei pionieri della fede ma forse poco consapevoli della pesante responsabilità ereditata.
Paolo Yun venne decapitato perché fece seppellire sua madre secondo il rito cattolico, in barba alle rigide pratiche funebri confuciane ordinate per editto dal governatore di Jeonju e dalla corte del re. L’atto di bruciare le tavole legate alla religiosità animista gli costarono la testa. Decapitato per sentenza del sovrano. Le cronache raccontano che andò incontro al boia “felice come uno che stava andando ad un banchetto”. Il suo volto insieme a quello di molti altri ieri campeggiava nella grande piazza di Seoul e la purezza della loro testimonianza è la lezione migliore per il cattolicesimo coreano, chiamato a non accontentarsi dell’ottima reputazione di cui gode nel paese (grazie anche all’impietoso confronto con la schizofrenia morale e il proselitismo aggressivo protestante) ma a dare concreto seguito a quella storia eroica.
Francesco ha chiesto di mettersi in ascolto del grido dedi poveri, che non mancano nel terreno fertile su cui pascola la “tigre asiatica”, dove è vero che gli indici di crescita sono preceduti sempre dal segno positivo, e che il Pil pro capite è 23 volte quello della vicina Corea del Nord (grazie anche al “Made in Korea” di tecnologica definizione) ma anche gli “scarti” della frenetica e a volte ansiosa rincorsa ai piani alti dell’economia mondiale non mancano. Il Papa li ha incontrati, i residui dell’efficientismo coreano, sempre ieri, volando a Kkottongnae, la collina dei fiori a sud di Seoul, dove padre John Oh Woong Jin negli anni 70 ha costruito una cittadella della solidarietà cristiana. Francesco ha passato metà del suo terzo pomeriggio coreano ad accarezzare corpi deformi, braccia molli, teste ciondolanti. Disabili e malati mentali raccolti in una delle innumerevoli strutture create negli anni dal carismatico operaio della carità. Si è tolto le scarpe per entrare, come d’uso da queste parti in segno di rispetto per i malati, e poi ha ascoltato e abbracciato molto, facendosi strumento di consolazione.
Ecco la parola magica, consegnata quasi in sordina in uno di quegli appuntamenti fuori programma di cui ha farcito il suo viaggio, la visita all’università dei gesuiti a Seoul, la Sogang. In famiglia, tra i suoi, il giorno prima, chiacchierando amabilmente aveva indicato l’unica ragione della presenza cristiana, in particolare quella religiosa (parlava a dei confratelli in fondo): consolare il popolo di Dio, lenire le tante, troppe, ferite, mostrare la misericordia infinita di Dio, il suo amore balsamico. Tutto in questo viaggio asiatico, dalla spilletta gialla sulla mantellina candida (segno di solidarietà con le vittime del naufragio del traghetto Sewol), al battesimo da amministrare in nunziatura, ai baci ai bambini down di Kkottongnae, non fa che rendere plastica questa sua unica convinzione. Non esiste che una missione per il Papa: asciugare le lacrime e mostrare la bontà di Dio.