Lorenzo Zaratta, il bambino di Taranto diventato simbolo dell’inquinamento dell’Ilva è morto mercoledì scorso. Fu il padre Mauro a raccontare la sua storia al mondo, sul palco, durante una manifestazione a Taranto: “Nessuno può dimostrare il nesso di causalità tra il tumore e i fumi dell’Ilva, ma la mia famiglia lavorava lì e i miei nonni e mia mamma sono morti di tumore”.Lorenzo, a cui era stato diagnosticato un tumore al cervello a 3 mesi dalla nascita, aveva compiuto 5 anni lo scorso 27 luglio. Cinque anni vissuti tra continui cicli di chemioterapia, in cui ha dovuto subire 25 operazioni e un trasferimento forzato a Firenze, in uno dei migliori reparti di neurochirurgia, la riabilitazione a Bosisio, la logoterapia a Roma, in un continuo di sacrifici e spostamenti.La sua famiglia non ha mai smesso di lottare per lui, di sperare, assieme a una compagnia di amici fedeli. Ma ieri l’altro l’annuncio su facebook, postato dal papà: “Cari amici/e volevo avvisarvi che Lorenzino ci ha fatto uno scherzetto… ha voluto diventare un angioletto…”.
E fa impressione, questa frase che contiene una inquieta levità, scritta subito sopra gli auguri di compleanno per il bimbo, sopra e tra immagini di mare splendido, a fianco la foto della sua mamma Roberta, sorridente e limpida.Una bella famiglia che abita in una terra bellissima, in quel Sud solare che io invidio un pochino, soprattutto oggi, in quest’estate nordica, umida e nuvolosa.
Vi è morto un figlio, carissimi mamma e papà; e dentro di voi piove con il sole. Il rischio che corriamo è confondere il coraggio e la forza d’animo che certuni hanno (non per carattere o genetica, ma per fede e volontà) fonte di sorrisi potenti, con la dimenticanza di quanto dure siano le circostanze, le prove affrontate. Di quanto dura sia la realtà. Basti vedere il calvario medico di questo bambino: diagnosi a Bari, operazione a Firenze e via così, in un balletto di trasferimenti; questo è il rischio di ammalarsi nelle regioni più disagiate; l’offerta di una Sanità che viaggia a livelli diversi. La beffa di un sistema inefficiente, disorganizzato, singhiozzante, che lascia alla buona volontà dei singoli (e di buoni ce n’è davvero) la cura e la presa in carico. Le buone cure in Italia ci sono, ottime; c’è però inequivocabilmente la difficoltà nel raggiungerle, ostacoli che possono oscurare, osteggiare, rendere tutto più difficile. Ma questa è solo la punta dell’iceberg, la vera magagna è profondissima e terribilmente inquietante, è la massa vagante della bomba chiamata Ilva, minacciosa, estesa, omicida. L’acciaieria, il peccato mortale di Taranto.
Aprire questa porta non fa chiarezza; è come entrare all’inferno, così testimoniano quelli che entrano nel suo ventre fumoso. Come si è arrivati a tanto? Come si è potuto costruire un mostro simile accanto a una città, in una terra la cui bellezza è ricchezza di per sé? E anche, mi viene da pensare, quante Ilva si stanno costruendo, nei paesi detti emergenti, penso alla Cina o all’India, che cominciano a divorare terre, persone, figli, sotto gli occhi di tutti, in nome di un presunto benessere e sviluppo economico? Se il progetto di partenza è buono, un’impresa è motore economico, quando, come e perché sfugge di mano il positivo e si trasforma in mostro a due teste?
Mi vengono in mente le parole di Eugenio Corti, l’autore del Cavallo Rosso, anche lui figlio e sua volta erede di una industria tessile, come descriveva il motivo che mosse suo padre a diventare un piccolo industriale e convinse lui a continuarne l’opera. Corti, profondamente cattolico, spiega che creare lavoro per la gente, per i poveri (se non c’è lavoro c’è povertà in tutti i sensi) era considerata una vera e propria opera di carità da suo padre. Egli, nato operaio, nutriva un rispetto profondo per i suoi dipendenti; era così fiero di poter accogliere le richieste di chi bussava alla sua porte e chiedeva un lavoro, per sé stesso, per un figlio: dare uno stipendio onesto ai suoi amici, ai figli degli amici, significava dare loro la possibilità di continuare a vivere, dignitosamente, felicemente, di avere casa e restare a casa.



Il vecchio padre di Corti aveva chiaro in mente che creare lavoro onesto, creare sviluppo era un dovere, cristiano, era un compito d’onore, opera certa di carità. Lo scrittore arriva a affermare di essere contento che suo padre, per intrighi bancari e crediti mai riscossi, non riuscì a diventare mai veramente ricco: non era per quello che aveva fondato la sua impresa. Che parole sorprendenti!Eppure questo è il punto, il fuoco che se si perde porta all’inferno dell’Ilva e di qualsiasi impresa. Di qualsiasi Stato. Di ogni opera umana.
Le opere sono al servizio dell’uomo. I soldi, il bene economico, è bene se al servizio dell’uomo.Prima viene l’uomo. La famiglia. La sua casa, la sua terra.I soldi sono un servizio; anche il lavoro è un servizio.Questo punto di vista si è perso da molto, moltissimo ormai.Eppure resta l’unico punto fermo. La fermezza da cui ricominciare. Salvare l’Ilva per salvare il lavoro: no, salviamo l’Ilva in modo da salvare l’uomo. Un abbraccio, a Lorenzo, a suo padre Mauro e a sua madre Roberta; con tutto il cuore, con tutta la fede e speranza possibili.

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