C’è sicuramente una cosa sulla quale io e Antonio Socci (con il quale non concordo praticamente mai) saremo insieme: quando ci chiederanno di calpestare la croce di Cristo in cambio della vita, è molto probabile che ci lasceremo ammazzare tutti e due. Lui avrà più coraggio di me, immagino: sarà più spavaldo, ma io lo seguirò, perché seguire è la più grande delle risorse per i poveracci. Sempre che si sia leali con la verità. E io intendo esserlo fino alla fine.
Dico questo non tanto per fare una premessa ai soliti discorsi, ma perché c’è il rischio che tutte le discussioni che ci stanno coinvolgendo a partire dalla tragedia dei cristiani irakeni facciano parte, pressoché in blocco, di uno spettacolo di disperazione come mai si era visto dalle nostre parti.
Di ritorno dalla Corea, il Papa ha detto due piccole cose sulle quali non smetto di riflettere. La prima, quando ha detto che è necessario “fermare” gli assassini. E ha aggiunto questa strana frase: “Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto”. Su questa base ha poi auspicato una risoluzione Onu, ma a me interessa la frase in sé.
Una sola nazione può infatti agire in base a un solo principio: la forza. E la giustizia non coincide con la forza. Né per “loro” né per noi. Questo non è un principio astratto: è un termometro che misura la temperatura della nostra speranza. Prima di decidere o meno di fare la guerra agli infedeli, domandiamoci per favore qual è la nostra speranza.
L’immagine che l’islam sta dando di sé stesso in questi anni è di una totale disperazione. La fede è una virtù di pochi (alcuni dei quali, grazie a Dio, ho potuto conoscere), il resto sono solo regole grossolane e una voglia disperata e violenta di riscatto non in cielo, ma qui e ora.
Isis che cos’è? Isis è il nulla, signori miei. E pensare che il problema, in questa tragica situazione, sia quello di armarsi e partire, be’, francamente mi pare far parte dello stesso nulla.
Per avere espresso posizioni moderate, per avere detto che oggi più che mai il compito della Chiesa è di generare uomini di fede, e soprattutto per “non” aver detto che è tempo di una nuova crociata, mi sono sentito (io come altri) attaccare con ferocia (tra parentesi: il web è pieno di siti e di blog in cui si affollano questi difensori strenui della fede, ma poi nella società non si vede nessun segno concreto della loro presenza).
Ora, io francamente me ne infischio degli attacchi, però non potete impedirmi di vedere, in questa voglia di contrapposizione, la prova generale del trionfo del niente, della disperazione, dello zero umano, la dimostrazione definitiva che gli uomini non contano nulla (su questo, Isis e molti eminenti biotecnologi sono perfettamente d’accordo), ma contano solo la forza e le ideologie e gli imam di tutte le religioni.
Questa è la disperazione che io temo ben più del tramonto dell’Occidente (che è già tramontato da un pezzo, anche se Ferrara e Cacciari non se ne sono accorti).
La seconda cosa che mi ha colpito del Papa − tanto per non insistere su quello di cui hanno parlato tutti − è quando ha esposto le ragioni del suo prossimo viaggio in Albania.
“Vado in Albania perché?” ha detto. “Per due motivi importanti. Primo, perché sono riusciti a fare un governo – pensiamo ai Balcani! –, un governo di unità nazionale tra islamici, ortodossi e cattolici, con un consiglio interreligioso che aiuta tanto ed è equilibrato. E questo va bene, è armonizzato. La presenza del Papa è per dire a tutti i popoli: Si può lavorare insieme!“
Ci vuole una grande speranza per dire si può lavorare insieme. Papa Francesco vede una piccola luce in Albania, e si affretta a segnalarla. Perché? Perché, forse, si sta rendendo conto che questa luce è fioca innanzitutto dentro la Chiesa, dove le fazioni prevalgono su quel giudizio semplice, quasi ingenuo, che una volta scomparso dalla faccia della terra lascia l’uomo sempre più solo.