Kent Brantly, medico, volontario, colpito dal feroce virus di Ebola e guarito quando c’erano poche speranze, grazie a un vaccino testato per ora solo sulle scimmie.
James Foley, reporter, sgozzato da un miliziano del sedicente califfato islamico.
Cos’hanno in comune questi due uomini finiti a scampare e perdere la vita, sfidando ogni attimo, dall’altra parte del mondo? Certamente l’appartenenza a un paese di cui si è orgogliosi, ma soprattutto l’amore per l’uomo, che significa spendersi per curarlo, e per raccontarlo. La dignità, con cui hanno affrontato la terribile malattia, la prigionia disumana. Anche il fatto di essere entrambi begli uomini, e nel pieno delle loro forze. Eppure c’è di più. Tutt’e due, che non si conoscevano, che lavoravano in campi differenti, e distanti, hanno parlato di Dio. In pubblico, apertamente, con naturalezza. Brantly, dimesso dall’ospedale di Atlanta dove aveva seguito le terapie risolutive, ha detto: “Oggi è un giorno miracoloso. Sono felice di essere vivo… Sono qui perché ho pregato un Dio che risponde alle preghiere”.
Foley era già stato rapito, dalle forze libiche filogovernative. Ricordando quei giorni di angoscia, ha detto: “Iniziai a pregare il rosario. Sapevo che mia mamma e mia nonna pregavano per me. Mi sentivo rinfrancato nel confessare la mia debolezza e la mia speranza insieme conversando con Dio, piuttosto che stare solo in silenzio».Chi predica un Dio tagliatore di teste non ha permesso che questa volta le sue preghiere gli salvassero la vita. Non è stato Dio a mancare, bensì il male dell’uomo, e forse un male più potente che li rende schiavi. Dio ha ascoltato di certo, come hanno detto i suoi genitori, come sa bene il papa che li ha cercati.
Ci penso ininterrottamente da due giorni. Nessuno osa nominare Dio, abbiamo paura (davanti agli uomini, il timore davanti al Creatore è altra cosa), siamo reticenti per una dubbia idea di rispetto e dialogo, che copre in realtà viltà o tiepidezza o indifferenza. Siamo trepidanti nei nostri posti di lavoro, nelle scuole, perfino nelle nostre famiglie, dove rischiamo pochissimo, al più qualche battuta, o note di malcelato disprezzo. Non osiamo nominarlo davanti a chi professa un’altra religione, quasi a scusarci di non sposar la stessa anche noi; non vogliamo mai tirarlo in ballo in nome di una sbagliata, etimologicamente e non solo, concezione della laicità. Non c’entra più nulla con la politica, con la scienza, con quel che studiamo e come lo studiamo, con le nostre scelte, con la vita. Dio è in chiesa, un’oretta la settimana al più.
Dio è per i più pensosi un lampo nella mente, un desiderio, o un’illusione. Ma non ci verrebbe mai in mente di professarlo davanti a tutti, con la ferma, serena e naturale certezza che ha mosso le parole di Brantley e Foley.
Abbiamo tanto da imparare da loro, ma non solo a prendere coscienza della nostra piccola fede. A vedere, e ascoltare con i nostri occhi e le nostre orecchie, che ci sono testimoni, sempre, che ogni giorno ci ricordano la sua presenza. A sperare con un po’ più di coraggio che Dio cambia i volti delle persone che incontra, li rende più umani e più belli, muove il cuore. Sono i segni che non abbandonerà il suo popolo.